In questi tempi bui, col Medio Oriente che ribolle di odio e paura, è forte la tentazione di abbandonarsi a razzismo e intolleranza
Ero lì, nel retro di una vecchia jeep polverosa, la fronte coperta di sudore, con il caldo del Medio Oriente che riempiva l’angusto veicolo di metallo. Un defunto impianto di aria condizionata soffiava aria calda e polvere, rendendo difficile persino respirare. Potevo sentire in bocca la sabbia del deserto. Accanto a me sedeva un giovane poco più che ventenne, la mano stretta su un mitra M-16 carico e col colpo in canna. Parlava fluentemente in arabo con un uomo di appena qualche anno di più, che ogni tanto sembrava intercalare qualche perla di saggezza nel discorso del giovane. Anche il conducente parlava a intervalli e pareva avere un buon senso dell’umorismo. Io me ne stavo seduto e zitto.
Mentre i tre arabi parlavano tra loro, ho riflettuto su dove mi trovavo. Guardando fuori dal finestrino sprangato vedevo quel recinto fin troppo familiare, munito di sensori computerizzati collegati fra loro. Eravamo da qualche parte sulla lunga strada semi-asfaltata che corre parallela al confine fra Israele e striscia di Gaza.
Sono un riservista delle Forze di Difesa israeliane e in quel momento ero di stanza nella vicina base alle porte del kibbutz meridionale di Kissufim. Il compito della mia unità era quello di pattugliare il lungo tratto di recinzione e stare attenti a qualsiasi possibile infiltrazione in Israele.
La situazione in cui mi trovavo avrebbe potuto essere da incubo. Immaginate la scena: un giovane ebreo immigrato dall’America appollaiato sul sedile posteriore di una vecchia jeep in compagnia di tre arabi armati. Avrei potuto essere un soldato rapito, una delle più temute minacce militari per lo stato d’Israele. Invece non ero in pericolo. Cioè, non più di quanto lo fossero gli altri tre soldati dentro quella jeep insieme a me.
Ero lì: un soldato al confine tra Israele e Gaza in una vecchia jeep piena di soldati israeliani e la lingua più comune tra di noi era l’arabo. Accanto a me sedeva Jamaal (i nomi li ho cambiati), un sergente riservista che da civile gestisce un autolavaggio nel suo piccolo villaggio in Galilea. Non sta zitto un momento su quanto sia fiero di se stesso. E’ anche un diavolo di soldato e un compagno di stanza solo moderatamente disordinato.
Sul sedile anteriore destro stava Hussain, un cacciatore di tracce delle Forze di Difesa israeliane. La sua specialità sta nella straordinaria capacità di scorgere impronte nella striscia di sabbia che stra fra la strada su cui pattugliamo e la recinzione di confine. I suoi occhi scuri fissano la sabbia dall’interno del veicolo in movimento. La sua mente registra ogni minimo dettaglio della superficie pietrosa. Ho avuto occasione di vederlo coi miei occhi scoprire le labili tracce che hanno portato alla scoperta di due uomini che erano riusciti a varcare la recinzione ed entrare in Israele.
Accanto a lui sedeva Mohammad, il guidatore. E’ un musulmano e siccome eravamo nel mese di Ramadan, il mese sacro islamico di digiuno e introspezione, non mangiava né beveva. Mentre noialtri trangugiavamo acqua per reggere al caldo del deserto e fumavamo sigarette per superare le lunghe ore in servizio di pattuglia, lui se ne asteneva. Quando gli ho chiesto cosa pensasse dell’ISIS, si è fatto scuro in volto. “Non sono musulmani – ha detto con le labbra leggermente tremanti – sono animali”.
In questi tempi segnati dalla paura si è tentati di abbandonarsi alla comodità di dipingere i nostri simili in massa a pennellate grossolane. Le sfumature sono difficili, mentalmente estenuanti. Le sfumature richiedono osservazione e la disponibilità a mettere in discussione pregiudizi e convinzioni. Noi esseri umani, per quanto evoluti possiamo essere, tendiamo sempre a mettere le cose in poche scatole molto grandi.
Ma è proprio questa la sfida che ci pone il terrorismo. Senza alcuna remora a condannare con forza coloro che mirano a colpire civili innocenti, tuttavia non dobbiamo mai cadere preda della vigliaccheria e nella meschinità del razzismo e dell’intolleranza. Non è facile. Molti di noi preferiscono condannare popoli interi anziché riflettere. E’ più comodo odiare in blocco che distinguere. Può essere pericoloso aprire la mente, ma è molto più pericoloso lasciarla chiusa. Ogni forma di razzismo è radicata nella paura, ed è tanto deplorevole quanto irrazionale.
In tempi bui come questi, quando il Medio Oriente sembra ribollire di odio e paura, ripenso al mio servizio di pattuglia al confine fra Israele e Gaza in compagnia di tre arabi armati, tre ottimi soldati, tutti e tre impegnati nel compito di difendere Israele.
David Eastman, autore di questo articolo
(Da: Times of Israel, 13.10.15)