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 Israele, Emirati e Bahrain: mazal tov, mabruk, congratulazioni

Le bandiere di Stati Uniti, Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain proiettate martedì sera sulle mura della Città Vecchia di Gerusalemme

E’ la realizzazione di un antico sogno degli israeliani: essere accettati. Ora i palestinesi potrebbero finalmente rendersi conto che il tempo non lavora per loro, e Israele potrebbe sentirsi abbastanza sicuro da correre rischi che prima non poteva permettersi
Washington, 15 settembre: la firma degli “Accordi di Abramo”
Finalmente una buona notizia. Anzi no, una grande notizia, una notizia di portata storica. La cerimonia di martedì sul prato della Casa Bianca, dove Israele ha firmato accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, è la realizzazione di un sogno degli israeliani vecchio di decenni: essere accettati. Forse non accettati globalmente, ma accettati da parte di alcuni attori regionali estremamente significativi.
Il fatto che questa novità abbia luogo mentre le ombre del coronavirus incombono sul paese la rende ancora più gradita. Con il paese sull’orlo del lockdown proprio alla vigilia di Rosh Hashanà (il capodanno ebraico), la cerimonia di Washington ha dato a tutti noi un motivo per cui rallegrarsi, almeno brevemente. Ed è certamente il caso di rallegrarsi per gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Anche coloro che non amano il primo ministro Benjamin Netanyahu né il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dovrebbero plaudire a questi accordi, perché costituiscono una grande svolta in Medio Oriente, indipendentemente da chi si prenderà il merito d’averli realizzati.
Perché una svolta? Perché inaugurano una nuova era in cui il Medio Oriente non è più incatenato alle tragedie del passato, ma cerca un modo creativo e costruttivo di muovere verso il futuro. Come ha detto lunedì il consigliere della Casa Bianca Jared Kushner (uno che merita molto del credito per questi accordi), “anziché concentrarsi sui conflitti passati la gente è ora concentrata sulla creazione di un palpitante futuro pieno di infinite possibilità”. C’è molto da fare: o si resta paralizzati dal passato o si decide di andare avanti. Per troppo tempo questa regione – specialmente i palestinesi – è rimasta paralizzata nel passato. Il significato della cerimonia di martedì è che i principali attori regionali hanno detto pubblicamente a se stessi e al mondo che è giunto il momento di andare avanti. Il che non significa dimenticare o spazzare sotto al tappeto i disaccordi e gli scontri del passato, ma significa non permettere loro di tenere per sempre in ostaggio il futuro.
Le bandiere di Stati Uniti, Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain proiettate martedì sera sulle mura della Città Vecchia di Gerusalemme
Gli accordi firmati a Washington non risolvono tutti i problemi strategici d’Israele. L’Iran rimane una minaccia, Gaza una tragedia umanitaria e la questione palestinese continua a inasprirsi. Ma gli accordi dimostrano che è possibile separare la questione palestinese e pensare in modo diverso e creativo. Fino a martedì, per la pace mediorientale il mondo era incatenato a un paradigma del tipo “tutto o niente” che non ha funzionato per un quarto di secolo: o la pace completa con i palestinesi, o niente del tutto con il mondo arabo. Ma la realtà può essere molto più sfumata, e questo accordo ne prende atto. È possibile avere qualcosa con il mondo arabo anche in assenza di una pace piena con i palestinesi, nell’auspicio che relazioni migliori con il mondo arabo possano effettivamente portare, tra gli altri vantaggi, a migliori possibilità di pace con i palestinesi.
Come mai? Perché i principali stati arabi possono ora spingere i palestinesi verso una maggiore flessibilità; perché i palestinesi potrebbero finalmente rendersi conto che il tempo non lavora a loro favore; perché Israele potrebbe infine sentirsi abbastanza sicuro da correre dei rischi che prima non poteva permettersi.
Una delle equazioni fallimentari dei precedenti tentativi di pace israelo-palestinese era l’idea che non si può concordare su nulla finché non si è trovato un accordo su tutto. Questa equazione aveva bloccato il processo. Cosa si fa se alcune su cose si può concordare ma su altre no, almeno per il momento? Invece di progredire dove possibile, quell’approccio “tutto o niente” impediva qualsiasi progresso. Quel modo di pensare dominava anche l’approccio alla normalizzazione tra Israele e mondo arabo. Ogni normalizzazione era considerata impossibile fino a quando non ci fosse stata una pace piena con i palestinesi. Ma poiché quella pace si rivelava irraggiungibile, ecco che non si poteva promuovere nessuna normalizzazione, il che era un male per tutti.
Quella formula è stata ora sostituita da una nuova: andare avanti dove si può, sperando che questo crei opportunità tali da rendere possibile affrontare in seguito questioni estremamente intricate che in passato erano semplicemente troppo difficili da sciogliere. Più di 40 anni dopo il trattato di pace egiziano-israeliano solo chi ha paraocchi ideologici sosterrebbe che gli Accordi di Camp David non hanno portato enormi benefici a Israele, all’Egitto e a tutta la regione, anche se non hanno risolto la questione palestinese. Lo stesso vale oggi. Solo chi è accecato dall’ideologia sosterrà che gli accordi firmati martedì non sono buoni perché risolvono solo alcuni problemi, ma non tutti. Il meglio è nemico del bene. L’accordo di martedì è perfetto e risolve tutti i problemi? No. Ma è buono perché risolve alcuni di essi e apre la strada per andare avanti sugli altri? Sì, senza alcun dubbio.
(Da: Editoriale Jerusalem Post, 16.9.20)

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