Il diritto degli ebrei all’autodeterminazione non è esclusivo, ma la pace non può che passare dalla sconfitta storica del nazionalismo estremista palestinese che quel diritto vuole negare
Di Einat Wilf
La sinistra sionista aspira alla sconfitta del nazionalismo irredentista palestinese almeno quanto vi aspira la destra sionista. Solo quando lo ammetterà, la sinistra sionista potrà guidare lo stato di Israele verso un accordo di pace, se e quando ciò diventerà fattibile. Infatti un accordo di pace basato sulla divisione del paese sarà possibile solo quando il movimento irredentista palestinese riconoscerà la propria sconfitta rispetto al movimento nazionalista ebraico, il sionismo.
In generale, la sinistra preferisce non pensare né parlare in termini di vittoria e sconfitta. Le persone di sinistra preferiscono pensare di essere gente buona, incline al compromesso. La sinistra considera il proprio sostegno alla divisione del paese in due stati come il giusto compromesso in cui ciascuna parte riconosce che non si può avere tutto per via dell’esistenza dell’altra parte. Purtroppo, quello che la sinistra considera un giusto compromesso viene visto da parte palestinese come una sconfitta umiliante.
Dal punto di vista palestinese, il “ragionevole” compromesso suggerito dalla sinistra non è sostanzialmente diverso dai sogni espansionisti attribuiti alla destra. Agli occhi dei palestinesi, per qualche incomprensibile motivo sia la destra che la sinistra israeliana insistono con la “bizzarra” idea che il “fittizio” popolo ebraico abbia qualche misterioso diritto ad autodeterminarsi nella “Palestina araba”, e non importa se si tratta di poco più del 17% del territorio a ovest del fiume Giordano (come prevedeva il piano Peel respinto dagli arabi nel ‘37) o del 55% (come prevedeva il piano di spartizione respinto dagli arabi nel 47) o del 78% (come erano le linee armistiziali del ’48 attaccate dagli arabi nel ‘67) o del 100%. Il movimento irredentista palestinese rimane votato all’idea di “liberare” tutta la Palestina, dal mare al Giordano. Nulla indica che i suoi leader siano disposti a riconoscere che il popolo ebraico, in quanto popolo, abbia pari diritto all’autodeterminazione in questa terra, che è anche la sua terra natale.
Ciò che meglio indica l’impegno del movimento irredentista palestinese a continuare la lotta per “tutta la Palestina” è il suo continuo alimentare l’illusione del ritorno: in particolare, la percezione che in assoluto ogni palestinese – persino i discendenti di terza e quarta generazione di “profughi” che spesso già vivono all’interno della Palestina, come a Ramallah o a Jenin – avrà in eterno il “diritto” personale e non negoziabile di “tornare” a stabilirsi in qualsiasi punto della terra tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. Restare aggrappati a questo concetto di “diritto al ritorno” permette ai palestinesi di continuare a credere che, anche se perdono una battaglia, la guerra non è mai finita. E se la guerra non è finita, non bisogna ammettere la sconfitta: non bisogna firmare un accordo che ai loro occhi è una resa.
Dunque il cosiddetto “diritto al ritorno” è il concetto che raccoglie il più ampio consenso da entrambe le parti: fra i palestinesi che lo sostengono, fra i sionisti che vi si oppongono. Anche gli israeliani di sinistra come me, impegnati per la suddivisione del paese sulla base delle linee del ‘67, non sono disposti ad accettare il principio del cosiddetto diritto al ritorno.
Ma non solo i sionisti. Anche la sinistra non-sionista, che arriva a promuovere la visione di un singolo stato non-ebraico, non è tuttavia disposta ad accettare il “diritto al ritorno” ed esorta i palestinesi a smettere di tramandare la tradizione della nakba di generazione in generazione in cambio, dicono loro, dell’abolizione del diritto degli ebrei a stabilirsi in Israele. Ma a giudicare da un recente scambio di lettere aperte fra Rogel Alpher e il rapper arabo-israeliano Tamer Nafar, persino di fronte alla disponibilità della sinistra non-sionista a rinunciare al diritto al ritorno degli ebrei (nello stato ebraico, non in quello palestinese), rimane frustrata la speranza che i palestinesi rispondano rinunciando al loro “diritto al ritorno” (non nello stato palestinese, ma in quello ebraico).
La sinistra sionista deve guardarsi allo specchio e ammettere: non è vero che noi siamo quelli buoni, quelli generosi, quelli giusti. Noi, non meno della destra, abbiamo bisogno della sconfitta dell’irredentismo palestinese. Noi, non meno della destra, auspichiamo che esso ammetta la sconfitta e riconosca che non otterranno mai tutta la terra che chiamano Palestina negandone agli ebrei anche solo una parte. Certo che insistiamo sul nostro diritto all’autodeterminazione in una parte della nostra patria. Il nostro diritto non è esclusivo né assoluto, naturalmente. Ma fino a quando il movimento irredentista palestinese ce lo nega del tutto, noi perseguiremo la sua sconfitta. E poi potremo fare la pace.
(Da: Ha’aretz, 22.9.16)