(Shlomo Avineri) A quanto pare, la domanda più importante in questi giorni non è se Bashar Assad sopravvivrà, bensì se sopravvivrà la Siria come stato.
La Siria, nei suoi attuali confini, non è un’entità omogenea, né storicamente né etnicamente. È il risultato di accordi imperialisti anglo-francesi fatti dopo la prima guerra mondiale. Furono questi a fissare i confini dei paesi creati sulle macerie dell’Impero Ottomano. Prima vi furono gli accordi Sykes-Picot e i controversi risultati della “rivolta araba” di Feisal. Poi vi fu la decisione francese di separare il Libano dalla Siria e annettergli aree al di là della regione del Monte Libano storicamente cristiana, per dare vita a una sorta di “grande Libano”.
Infine, alla vigilia della seconda guerra mondiale, la capitolazione della Francia alle richieste della Turchia di trasferirle il controllo sulla provincia di Alessandretta (la provincia di Hatay). In Siria, la Francia fu anche responsabile d’aver incoraggiato la minoranza alawita a servire nell’esercito per controbilanciare la maggioranza sunnita, secondo la consolidata politica colonialista del “divide ed impera”.
Questo retaggio appare oggi evidente. È ciò che ha permesso alla minoranza alawita di prendere il potere sotto il partito laico Baath. Ha anche creato la paradossale situazione per cui il regime di Assad ha goduto – e ancora gode – di un sostegno significativo da parte della minoranza cristiana, pari a circa il 10% della popolazione del paese. Nonostante la sua natura repressiva, i cristiani lo considerano la loro migliore garanzia contro una tirannia della maggioranza sunnita.
Come in Iraq e in Egitto (nonostante tutte le differenze fra Saddam Hussein e Hosni Mubarak), anche in Siria il secolarismo è andato a braccetto con un regime repressivo. La guerra civile in Siria non è solo una guerra conto il regime repressivo di Assad. Essa ha assunto caratteristiche etniche e religiose. In questo senso ricorda ciò che accadde nella ex-Jugoslavia. La forza crescente degli elementi estremisti islamici nelle file dell’opposizione – a volte sostenuti dall’Arabia Saudita, altre volte legati ad al-Qaeda – mostra che l’alternativa al regime di Assad potrebbe essere tutt’altro che democratica.
Le minoranze lo capiscono molto bene. Alcuni cristiani stanno lasciando la Siria, mentre i curdi nel nord-est del paese stanno già pensando a un’autonomina, eventualmente collegata con la regione autonoma curda nel nord dell’Iraq. Se Assad cade, non si può escludere uno scenario in cui gli alawiti si raccolgono nella loro roccaforte sulla montagna; e chissà come reagirebbero i turchi, che hanno un vecchio conto in sospeso con i siriani su tutte le questioni di confine (per non parlare del conto aperto coi curdi).
Così come potrebbero esservi ripercussioni sulla cospicua minoranza alawita nel sud-est della Turchia e sui sunniti in Libano, concentrati soprattutto a Tripoli, non lontano dal confine con la Siria.
L’eventualità di una disgregazione della Siria riflette processi le cui ramificazioni non si limitano al futuro dei regimi, ma riguardano l’esistenza stessa di questi paesi. La sistemazione territoriale inventata dopo la prima guerra mondiale, che i capi politici finora hanno cercato di preservare, sta iniziando a sgretolarsi. È accaduto in Iraq, che non è più uno stato nazionale arabo unificato. È il caso del Sudan, le cui frontiere furono disegnate durante l’occupazione britannica alla fine del XIX secolo e che si è già diviso in due, con ulteriori probabili divisioni all’orizzonte.
E in Libia, la popolazione che ha abbattuto Muammar Gheddafi trova difficoltà a mantenere unito il paese (ma si potrebbe ricordare anche il Libano, precariamente ricucito dopo la guerra civile del 1975-1990 e l’occupazione siriana del 1976-2005, e lo Yemen diviso fra nord e sud fino al 1990 e ora sull’orlo di nuove divisioni. In questo contesto si può leggere anche la frattura fra la Cisgiordania sotto Fatah e la striscia di Gaza sotto Hamas).
Nel clima attuale, un articolo come questo potrebbe essere interpretato da qualche analista arabo come un’ulteriore prova del complotto sionista ai danni del mondo arabo: qualunque assicurazione che si tratta soltanto dell’analisi di un possibile sviluppo non convincerà mai chi crede alle teorie cospirative. Ma i processi storici hanno talvolta conseguenza inaspettate. Come in Russia la disintegrazione del regime comunista non ha aperto la strada a un sistema democratico ma a Vladimir Putin, lo stesso avviene nella nostra regione. La “primavera araba” potrebbe davvero riservare grosse sorprese.
(Da: Ha’aretz, 8.8.12)
Nell’immagine in alto: mappa storico-culturale del Medio Oriente della Columbia University