(Gabi Siboni) Dopo una rigorosa pianificazione e un’approfondita preparazione, ai primi di giugno 1982 le Forze di Difesa israeliane lanciarono l’operazione “Pace in Galilea”. L’obiettivo dichiarato era quello di liberare la Galilea (regione settentrionale di Israele) dalla costante minaccia dei razzi Katyusha dal Libano e di allontanare le formazioni terroristiche palestinesi dalla frontiera nord del paese.
Ma l’operazione aveva anche un obiettivo politico a lungo termine. Benché non fosse mai stato affermato pubblicamente, Israele voleva creare un nuovo ordine politico nel Libano (all’epoca già sprofondato da sette anni nell’anarchia di una sanguinosa guerra civile) e avere un paese alleato, o per lo meno pacifico, sul proprio confine settentrionale. Il labirinto della affiliazioni e alleanze etniche libanesi si tradusse tuttavia, per Israele in una realtà intricata e avvelenata, tanto che alla fine dovette accontentarsi di stabilire una precaria “fascia di sicurezza” di pochi km di profondità a ridosso della frontiera, anziché confinare con uno stato amichevole. Nel maggio 2000 Israele dovette ritirarsi anche da quella striscia di territorio (da allora presidiata da Hezbollah, con conseguenti lanci di razzi, incursioni in territorio israeliano, uccisioni e sequestri di israeliani, fino alla seconda guerra in Libano dell’estate 2006 che è riuscita a imporre sul confine una calma fragile e temporanea).
La guerra in Libano del 1982 ha insegnato a Israele quanto sia ancora valido il pensiero strategico del suo fondatore e primo capo del governo, David Ben-Gurion. E cioè che Israele non può modificare la realtà politica con la forza militare.
“Noi non possiamo porre fine a questo conflitto – disse Ben-Gurion ai vertici delle forze armate nel 1955 – finché gli arabi non vogliono fare altrettanto”.
Al momento di definire gli obiettivi militari di quella che poi sarebbe passata alla storia come la prima guerra in Libano, i decisori politici israeliani non tennero presente questo parere di Ben-Gurion. E così le Forze di Difesa israeliane si ritrovarono sprofondate per anni nel pantano libanese a causa di un processo decisionale raffazzonato e della mancanza di un ampio e consapevole consenso nazionale circa la logica alla base di quella campagna militare.
L’operazione “Pace in Galilea” ha segnato un punto di svolta nel modo di percepire e concettualizzare le minacce cui Israele deve fare fronte. L’ascesa di Hezbollah (terroristi libanesi islamisti sciiti, sostenuti da Iran e Siria), l’adesione alla cosiddetta “resistenza”, le intifade stragiste sono tutte dimostrazioni del nuovo approccio adottato dai nemici di Israele: i quali hanno capito che il tallone d’Achille d’Israele è il suo fronte interno per cui, abbandonata ogni velleità di affrontare l’esercito israeliano in una guerra tradizionale, hanno deciso di concentrare i loro sforzi e piani operativi contro i centri abitati.
Alla luce della realtà geo-strategica, gli obiettivi politici dell’operazione avrebbero dovuto essere fondati sulla dottrina di base di Ben-Gurion. Lo stato d’Israele deve stabilire e preservare una sua chiara deterrenza per garantirsi una situazione di calma che possa essere sfruttata per sviluppare misure volte a rafforzare ulteriormente la sua sicurezza, sviluppare l’economia, migliorare l’istruzione, integrare i nuovi immigrati ed elaborare accordi politici. Quando la sua deterrenza risulta indebolita, Israele deve fare ricorso alla forza allo scopo di ristabilirla per gli anni a venire (come è avvenuto con la guerra in Libano dell’estate 2006 e l’operazione anti-Hamas a Gaza nel gennaio 2009, così come con ogni singolo raid anti-terrorismo).
In questo scenario, le Forze di Difesa israeliane sono chiamate a garantire al paese due risultati particolarmente rilevanti: primo, infliggere ai nemici di Israele, quando necessario, un colpo abbastanza severo da non poter essere facilmente dimenticato e tale da richiedere massicce risorse perché i nemici possano riprendersi militarmente (il che procura a Israele un po’ di anni di calma). Secondo: farlo in fretta, cioè ridurre al minimo la durata della guerra guerreggiata in modo da temperare gli effetti negativi dell’interruzione della vita quotidiana.
Ma la prima e più importante lezione dell’operazione Pace in Galilea di trent’anni fa sembra essere la necessità di un ampio consenso nazionale prima di andare in guerra, a maggior ragione se i piani militari sono in preparazione da anni come era in quel caso. Israele è una democrazia dove le autorità devono rispondere del proprio operato di fronte alla popolazione, e le sue forze armate sono un esercito di cittadini consapevoli: due condizioni che rendono indispensabile il consenso per il successo militare. Il dibattito pubblico, che si andò facendo sempre più intenso man mano che la guerra in Libano si trascinava (negli anni 1982-85), è costato un prezzo pesante perché ha seminato dubbi sull’ineluttabilità, in quel caso, del ricorso alla forza.
La necessità di guadagnare legittimità interna è altrettanto importante oggi, quando Israele si batte per risolvere complesse questioni di sicurezza. Un ampio consenso interno dipende dalla consapevolezza che per contrastare tali minacce la forza deve essere usata come risorsa estrema. La lezione principale della prima guerra in Libano non deve andare persa: prevedere una piena partecipazione del governo nella valutazione (che non è mai solo tecnico-militare) delle situazioni che possono condurre a una guerra, così come prescrive la costituzione de facto di Israele con la Legge Fondamentale “Il Governo”. Questo vale per il ricorso alla forza e le sue ripercussioni. Questa rimane una delle condizioni più importanti per costruire il consenso nazionale, di cui vi sarà bisogno lungo tutto il percorso.
(Da: Israel HaYom, 5.6.12)