Dopo il ritorno dell’ex ostaggio israeliano Gilad Shalit nella sua casa a Mitzpe Hila¸ Israele sta gradualmente tornando alla vecchia routine. E uno dei riti ormai familiari è quello dell’ennesimo tentativo di far ripartire i colloqui di pace con i palestinesi.
Il Quartetto per il Medio Oriente, l’organismo di mediazione composto dai rappresentanti di Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia, si riunirà mercoledì prossimo a Gerusalemme per una sessione di negoziati, naturalmente indiretti (perché così esigono i palestinesi).
Intervistato la scorsa settimana dalla BBC, l’inviato del Quartetto Tony Blair ha detto di sperare che l’accordo di scambio Shalit/detenuti palestinesi possa rappresentare “un’opportunità”. Blair ha aggiunto che l’accordo “ci offre la possibilità di un cambiamento di atmosfera, un cambiamento di contesto” [Nota: una settimana da il portavoce dell’ala militare di Hamas, Abu Obeideh, ha tenuto a precisare che la sua organizzazione non ha firmato alcun accordo per il rilascio di Gilad Shalit direttamente con Israele, bensì un accordo diviso in due testi diversi: uno firmato tra Hamas e l’Egitto e il secondo tra l’Egitto e Israele.
Due giorni dopo, celebrando il rilascio di centinaia di terroristi come “motivo di orgoglio per il popolo palestinese”, il “primo ministro” di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha sottolineato che l’accordo non prevede il rilascio di detenuti solo della striscia di Gaza, ma anche di Cisgiordania, Gerusalemme, delle “terre del 1948” (Israele) e del Golan. “Pertanto – ha concluso il capo di Hamas – questo accordo ha ‘riunificato’ la Palestina e indica la road map dei palestinesi, mandando il chiaro messaggio che i confini della Palestina coincidono con i confini dell’accordo”.]
Purtroppo sembra che Blair indugi in una pia illusione. Lasciando pure da parte il declino dell’influenza dello stesso Blair presso i palestinesi, che lo accusano di essere prevenuto contro di loro (a quanto pare per il fatto che avrebbe fatto pressione contro la dichiarazione d’indipendenza unilaterale palestinese alle Nazioni Unite), il momento per questa ripresa dei negoziati non è affatto promettente.
Già prima che si venisse a sapere dello scambio, il Quartetto non riusciva a far tornare i palestinesi al tavolo negoziale. Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) continuava a insistere sulla precondizione di un completo blocco di tutte le attività edilizie ebraiche in tutte le aree al di là della linea armistiziale del periodo ‘49-’67, compresi quei quartieri di Gerusalemme e quei pochi, grandi blocchi di insediamenti che dovranno restare parte di Israele in qualunque accordo di pace futuro.
Non basta. L’Autorità Palestinese ha anche continuato a rifiutarsi di riconoscere Israele come stato nazionale del popolo ebraico. Persino Sari Nusseibeh, un intellettuale palestinese relativamente moderato, ha affermato di recente alla tv Al Jazeera che “nessun leader palestinese e nessuna persona responsabile può moralmente riconoscere Israele come stato ebraico”, e questo perché, a suo dire, “nell’Antico Testamento, Iddio comanda allo stato ebraico nella Terra d’Israele di nascere attraverso la guerra e l’espropriazione violenta di abitanti originari”.
Disonestamente Nusseibeh, e con ogni probabilità molti altri palestinesi “moderati”, vorrebbe far credere al mondo che è Israele – e non la striscia di Gaza – ad essere sotto il controllo di pazzi teocratici votati a realizzare quella che secondo loro è la rabbiosa volontà di Dio.
Certamente ora non ci si aspetta che si attenuti l’intransigenza palestinese riguardo al riconoscimento di Israele in quanto stato ebraico o al blocco delle attività edilizie. Semmai è assai più probabile che assisteremo a un’ulteriore radicalizzazione della piazza palestinese sulla scorta dello scambio strappato a Israele.
Dopo che per circa quattro anni l’influenza di Hamas in Cisgiordania era andata declinando, agli israeliani è toccato ora vedere lo spettacolo inquietante di centinaia di palestinesi che sventolano le bandiere verdi dell’organizzazione terrorista islamista a Ramallah, a Jenin e in altre città della Cisgiordania. Senza dubbio la popolarità di Hamas, che stava calando, è ora di nuovo in aumento.
La domanda di indipendenza unilaterale all’Onu sostenuta dall’Olp, che aveva rafforzato l’Autorità Palestinese sotto Abu Mazen, è ora eclissata dal successo di Hamas nell’ottenere la scarcerazione di 1.027 terroristi. E dunque non sorprende il fatto che, subito dopo lo scambio Shalit/detenuti palestinesi, un alto esponente di Hamas come Mahmoud Zahar abbia sfidato Abu Mazen a fissare la data per le elezioni. Certo, la popolarità di Hamas potrebbe essere effimera. Ma, perlomeno nell’immediato, lo scambio per Shalit sembra dimostrate l’efficacia dei metodi terroristici di Hamas nel dare risultati concreti rispetto ai dubbi e vaghi successi diplomatici dell’Autorità Palestinese alle Nazioni Unite.
È altamente improbabile che Abu Mazen si mostri più disponibile e flessibile che in passato, ora che Hamas ha dimostrato così bene alla piazza palestinese i frutti di una posizione verso Israele violenta, intransigente e ricattatoria. Se prima dell’accordo per Shalit, Balir e il Quartetto trovavano delle difficoltà a far tornare i palestinesi al tavolo negoziale, possiamo solo immaginare le difficoltà che incontreranno dopo.
Un fattore positivo rispetto al rilancio dei colloqui di pace è, invece, la popolarità acquisita dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Netanyahu gode ora dell’ampio sostegno necessario per portare avanti un accordo di pace che resta controverso. Ma Israele non può negoziare la pace da solo. E con tutto il rispetto e l’apprezzamento per l’inesauribile ottimismo di Blair, la rinascita di Hamas e il tipo di festeggiamenti che si sono visti nelle strade di Gaza e Cisgiordania – compresi gli slogan del tipo “il popolo palestinese vuole un altro Shalit” – non sono di buon auspicio per la pace.
Ed. Jerusalem Post