domenica, Novembre 24, 2024
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Gerusalemme. Quel falso "diritto" che blocca la pace

mappa olpPoco meno di un anno fa il Centro Metzilah per il Pensiero Sionista, Ebraico, Liberale e Umanista ha pubblicato un rapporto intitolato “Il ritorno dei profughi palestinesi nello Stato d’Israele” e lo ha presentato al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ad altri responsabili politici e ad esperti accademici. Il documento analizza tutte le fonti di diritto internazionale che si occupano di questioni relative al rientro di profughi ed esamina i metodi accreditati in tutto il mondo per affrontare i problemi di profughi.
Il diritto internazionale non impone né riconosce un diritto giuridico dei profughi palestinesi a stabilirsi in territorio israeliano. Un rimpatrio di così vasta scala non era consuetudinario al tempo in cui emerse il problema dei profughi palestinesi, e in pratica non viene utilizzato nemmeno oggi.
La questione dei profughi merita d’essere affrontata con la massima serietà, ma Israele deve fare attenzione a non riconoscere un “diritto” al ritorno dei profughi ai sensi del diritto internazionale giacché questo potrebbe costituire la base per nuovi obblighi giuridici. Intese e dichiarazioni non devono includere il riconoscimento di un “diritto” al ritorno che potrebbe successivamente essere invocato come un diritto da singoli profughi e loro discendenti senza poter essere più nemmeno revocato dai loro leader.
È necessario trovare il modo di porre fine alle sofferenze dei profughi palestinesi, tuttavia la giusta soluzione non può essere il rientro su larga scala in Israele di una popolazione tanto diversa, culturalmente e socialmente, dalla popolazione ebraica, e che coltiva la memoria di un “disastro” nella convinzione che fare giustizia richieda un totale ritorno.
Non sarebbe la soluzione migliore per i profughi, e certamente non sarebbe il modo per garantire la stabilità nella regione. Discutere la questione nell’ambito del discorso sui diritti umani può limitare le possibilità di arrivare a un accordo concretamente realizzabile.
Un attento esame delle fonti del diritto internazionale conforta la tesi che esso non conferisce loro un “diritto” al ritorno in Israele, e che Israele non ha l’obbligo di autorizzare tale ritorno.
La principale risoluzione Onu su cui i palestinesi basano la loro rivendicazione di un “diritto al ritorno” è la risoluzione dell’Assemblea Generale 194 (III) del 1948. Un attento esame di quella risoluzione e delle successive rivela che tali documenti non accordano ai palestinesi il “diritto” di tornare in territorio israeliano. Questo era vero all’epoca in cui le risoluzioni vennero adottate, e a maggior ragione lo è oggi, più di 60 anni dopo, quando il numero dei profughi, sommati a tutti i loro discendenti, è aumentato di circa dieci volte.
Un altro importante documento internazionale sui diritti umani cui fanno riferimento i palestinesi è la clausola “libertà di movimento” nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966. Questo documento non esisteva quando venne a crearsi il problema dei profughi palestinesi; ma in ogni caso, un attento esame del testo indica che anch’esso non obbliga Israele a permettere l’ingresso di profughi palestinesi che non sono mai stati cittadini né residenti di Israele.
Il diritto internazionale sulla cittadinanza, quello sui profughi (per come è definito dalle varie convenzioni sui rifugiati), il diritto umanitario e il diritto penale internazionale non impongono alcun obbligo a Israele di ammettere profughi palestinesi, né di garantire loro la cittadinanza. In mancanza di tale obbligo, Israele ha la facoltà di rifiutarsi di ammettere un grande numero di profughi e loro discendenti che indebolirebbero la maggioranza ebraica in Israele e la stabilità della sua esistenza in quanto stato ebraico e democratico (accanto ad uno stato palestinese).
Le stesse ragioni possono sostenere l’opposizione di Israele ad aprire le porte a una massiccia immigrazione di palestinesi attraverso ricongiungimenti famigliari.
L’attuazione del “diritto” al ritorno comprometterebbe quasi sicuramente qualunque soluzione del conflitto basata sul concetto di mettere i due popoli in condizione di vivere in due stati separati e indipendenti, nella pace e nella dignità. L’esperienza indica che è estremamente difficile reintegrare popolazioni divise da un conflitto violento e prolungato. Alla stessa conclusione giunge un’analisi storica comparativa.
Passando in rassegna una serie di storici conflitti etnici si trova che, dopo che una separazione etnica si è concretamente verificata, una composizione che preservi la separazione è sovente preferibile alla reintegrazione di popolazioni divise dalla violenza. Così, ad esempio, gli Accordi di Dayton firmati alla fine della guerra in Bosnia – una guerra che aveva provocato un grosso spostamento di profughi – affermano che costoro avrebbero il “diritto” al ritorno in patria; in pratica, tuttavia, il ritorno effettivo è impedito ancora oggi da numerosi ostacoli, a cominciare da ostilità etnica e gravi episodi di violenza.
Il riconoscimento a livello internazionale del fatto che la soluzione o la gestione politica dei conflitti è più efficace del conferimento di astratti diritti al ritorno dei profughi è stato consolidato da una recente sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani: la Corte ha respinto la rivendicazione dei profughi greci, esiliati dalla parte settentrionale dell’isola di Cipro nel 1974, secondo i quali in nome dei diritti umani doveva essere consentito loro di stabilirsi nelle loro antiche case.
Il fatto che il caso dei profughi palestinesi venga trattato come viene trattato deriva esclusivamente da considerazioni politiche. La posizione israeliana su questo argomento ha piena giustificazione giuridica.
(*) Nella foto in alto: Le mappe della pubblicistica palestinese raffigurano costantemente il “diritto al ritorno” (rappresentato dal simbolo della chiave) come la “riconquista demografica” di Israele e la sua cancellazione in quanto stato sovrano del popolo ebraico
Ruth Gavison, Yaffa Zilbershats, Nimra Goren-Amitai

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