Saggiamente Israele ha per lo più taciuto sull’intervento militare internazionale in Libia. È chiaro che in Israele farà piacere se l’operazione riuscirà a impedire un massacro di innocenti, ed è chiaro che Gerusalemme non verserà una lacrima se alla fine il demenziale e antisemita dittatore libico verrà deposto e rimosso dalla scena mondiale.
Tuttavia, mentre ancora si odono in vari ambienti gli echi della cantilena “sono gli ebrei che hanno spinto l’America e l’occidente nel pantano iracheno”, l’ultima cosa di cui ha bisogno Israele è di essere visto come quello che sprona il mondo ad attaccare un altro paese musulmano.
E così, nei giorni precedenti il voto di giovedì scorso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla risoluzione che decreta la “no-fly zone” sulla Libia, nessun rappresentante israeliano si è pubblicamente espresso su questo argomento tanto dibattuto. Solo la sera stessa in cui la risoluzione è stata approvata, in un’intervista preregistrata alla Cnn il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato il tema, e solo dopo che era stato sollecitato dall’intervistatore. Netanyahu ha scelto con cura le parole.
Alla domanda su cosa pensasse di ciò che sta accadendo in Libia, ha risposto: “Ebbene, Gheddafi non è certo un amico di Israele, né un amico del popolo ebraico. E penso che ora la sua gente possa vedere che non è amico nemmeno del popolo libico. Si tratta di un uomo che ha contribuito a far esplodere in cielo aerei civili, che ha alimentato il terrorismo. Ha fatto un sacco di cose orrende.
Dunque penso che nessuno sarebbe dispiaciuto di vederlo andar via. Io non lo sarei”. Alla domanda più specifica se avrebbe decretato una “no-fly zone”, Netanyahu ha risposto che non intendeva tirare a indovinare sulle scelte del presidente Usa Barack Obama e degli altri chiamati a prendere quella decisione, ma che lui “certamente non sarebbe stato contrario” a un’azione militare, se America e occidente avessero deciso in quel senso.
Ebbene, ora la comunità internazionale ha deciso in quel senso. E certamente nessuna persona razionale può attribuire a Israele tale decisione internazionale, peraltro destinata a farsi sempre più controversa man mano che la situazione in Libia diventerà più “ingarbugliata”. Ciò nondimeno, la decisione di sganciare bombe sulla Libia avrà certamente un impatto sulle politiche verso Israele, se non a Washington sicuramente a Parigi e a Londra.
Non ci vuole una fantasia particolarmente fervida per immaginare che il presidente francese Nicolas Sarkozy e il primo ministro britannico David Cameron avranno urgente bisogno di riparare i guasti con il mondo arabo e musulmano dopo che avranno causato (inevitabilmente, anche se involontariamente) un bel po’ di “danni collaterali” – vale a dire di vittime civili – andando al di là di ciò che la Lega Araba sta già dicendo d’aver originariamente autorizzato. E a prima vista non sembra esserci maniera migliore e ricetta più facile, per ricucire i rapporti con il mondo arabo, che quella di prendersela con Israele.
Già la scorsa settimana, ancor prima che iniziassero i bombardamenti sulla Libia, il nuovo ministro degli esteri francese Alain Juppé ha accennato alla possibilità che l’Unione Europea possa riconoscere uno stato palestinese unilateralmente (cioè, senza negoziato né accordo con Israele). Parlando alla commissione esteri del parlamento francese, Juppé ha detto che, sebbene la Francia non intenda procedere a un tale riconoscimento unilaterale di propria iniziativa, “bisogna tenere a mente” la possibilità che a farlo sia tutta l’Unione Europea. Le parole di Juppé sono collegate alla crisi in Libia?
Difficile dirlo. Persino il ministro degli esteri svedese Carl Bildt, probabilmente uno dei ministri degli esteri europei meno ben disposto verso Israele, ha detto in un’intervista al Jerusalem Post all’inizio di questo mese che la Svezia sarebbe contraria a tale mossa.
Ma non è difficile immaginare francesi e inglesi che si fanno promotori di una pesante opera di lobbying all’interno della UE a favore di una dichiarazione unilaterale a danno di Israele, dopo aver martellato la Libia. Si tratterebbe di un modo relativamente poco costoso (per loro) di mostrare all’opinione pubblica araba e islamica, sia interna che globale, che quelle bombe non costituivano una crociata occidentale contro l’islam: una mossa che si guadagnerebbe vasti applausi fra i tanti musulmani in tutto il mondo.
E tale riconoscimento potrebbe non essere che una manifestazione di quella che potrebbe rivelarsi una pressione a tutto campo su Israele affinché faccia le scelte e le concessioni (non importa quanto rischiose) che quei paesi reputano necessarie per un accordo di pace israelo-palestinese (ma soprattutto per ricucire i loro rapporti col mondo arabo-islamico).
Nel momento in cui importanti paesi dell’Unione Europea effettuano raid aerei sulla Libia, non è difficile immaginare che cercheranno di smorzarne l’impatto: ad esempio, facendo pressione all’interno della UE per una posizione più dura verso Israele nella prossima dichiarazione del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) prevista fra un paio di settimane.
Naturalmente tornerà la quiete, dopo la tempesta oggi in corso in Libia. Ma durante quella quiete, c’è da aspettarsi che alcuni dei paesi di quest’ultima “coalizione dei volonterosi” chiederanno a Israele, magari senza dirlo esplicitamente, di pagare una parte del conto per ripulire lo sconquasso.
Herb Keinon