Quasi ogni giorno ci viene detto che si va deteriorando la posizione d’Israele nell’opinione pubblica mondiale. La cosa ha gravi implicazioni concrete, al punto di arrivare al rigetto del diritto d’esistere d’Israele.
E Israele non sembra in grado di frenare il fenomeno. Molti tendono ad attribuire la colpa allo scarso inglese di alcuni rappresentanti diplomatici o al fatto che il portavoce delle Forze di Difesa israeliane non riesca a fornire in tempo “filmati positivi”.
Ma sono sciocchezze. Se Israele sta perdendo questa battaglia è perché punta a spiegare le proprie ragioni con argomenti sul piano operativo, mentre la domanda che il mondo pone è: “cosa diavolo ci fanno gli ebrei laggiù”?
Un importante esperto israeliano di pubbliche relazioni tornato di recente da una campagna promozionale all’estero ha lamentato che “semplicemente non ci capiscono”. Bene, e perché dovrebbero? La maggior parte dei cittadini del mondo in quest’epoca non ha alcuna dimestichezza con il legame storico fra il popolo ebraico e la Terra d’Israele.
Molti ci considerano dei rifugiati senza alcuna relazione con questo territorio, fuggiti dalle sofferenze in Europea per trovare rifugio, in modo del tutto casuale, in Palestina. Quando il presidente americano Obama ha affermato, nel suo famoso discorso al Cairo (luglio 2009), che l’aspirazione a una patria ebraica nasce dalla storia innegabilmente tragica degli ebrei, molti qui in Israele si sono sentiti offesi. “Perché dice così? Noi non siamo qui per via della Shoà”.
Ma Obama non ha colpa. Dopo tutto la Shoà è diventata la narrativa con cui Israele presenta se stesso a tutti i suoi ospiti (e anche ai suoi stessi figli). Non è forse vero che Obama venne portato direttamente al Museo della Shoà di Yad VaShem appena atterrato qui? Non è forse vero che è lì che portiamo i milioni di nostri ospiti per spiegare loro “chi siamo, da dove veniamo e cosa ci facciamo qui”? L’usanza di portare gli ospiti d’Israele innanzitutto a Yad VaShem comporta un messaggio chiaro e forte: crea l’impressione che la Shoà sia la ragione e la giustificazione per l’esistenza dello stato; pone Israele sul podio della vittima, del profugo alla ricerca di un rifugio.
È vero invece che i pilastri d’Israele vennero piantati decine di anni prima della Shoà. Le sue fondamenta affondano nell’idea sionista. Israele è prima di tutto un’epopea di risorgimento nazionale. La storica Barbara Tuchman scrisse una volta che Israele è la sola nazione al mondo “che oggi governa se stessa nello stesso territorio, sotto lo stesso nome e con la stessa lingua e religione con cui si governava tremila anni fa”.
Tutta la storia di Israele – il risveglio nazionale e il ritorno a quell’antica terra patria che è il solo luogo dove l’idea dell’indipendenza ebraica si sia mai materializzata e si possa mai materializzare – è affascinante ed emozionante. C’è chi la ascolta, e ammorbidisce le avversioni. “Avete argomenti che non conoscevo per niente” è una frase che ho sentito decine di volte da persone a cui era stata raccontata questa storia per la prima volta. Il nostro diritto a vivere qui è insito in questa storia.
Il popolo ebraico è tornato nella sua mai abbandonata patria storica in modo consapevole e a buon diritto, non per pura combinazione. Israele, pur con tutti i suoi difetti, è la stupefacente realizzazione di una visione di 3.800 anni di nazionalismo ebraico.
Essere una nazione che persegue giustizia e filantropia è l’essenza dell’ebraismo e la ragione dell’antico patto: “Camminerò fra voi e sarò il vostro Dio, e voi sarete il mio popolo”.L’ebraismo è una ricetta per la conduzione di una nazione e degli individui che la compongono. La sua attuazione richiede l’esistenza di una struttura nazionale ebraica, e non vi è luogo più naturale e giusto della Terra d’Israele per la conduzione di questo stato ebraico.
Lo stato d’Israele non è ebraico al 100% né democratico al 100% (non esiste nulla del genere nella realtà). E tuttavia è lo stato più ebraico-e-democratico del mondo. Solo in Israele i due aspetti dell’ebraismo – quello religioso e quello nazionale – si possono realizzare, e l’impegno verso l’ebraismo assume il suo pieno significato.
Questa è la nostra vera storia, e senza di essa Israele non ha scopo, non ha giustificazione e non ha speranza. Far conoscere questa storia al resto del mondo è compito arduo; eppure, senza questo, sarà impossibile riscattare la posizione e l’immagine d’Israele, qui come all’estero.
Benny Levy
Nella foto in alto: moneta del terzo anno della rivolta ebraica guidata da Simeon Bar Kochba (132-135 e.v.) con la rappresentazione della facciata del Tempio e, sul retro, la scritta: “Simeon/per la libertà di Gerusalemme