Il 4 gennaio sono cinque anni da quando si è bruscamente conclusa la partecipazione di Ariel Sharon alla vita dello stato d’Israele. Dall’età di 14 anni fino al suo ultimo giorno da primo ministro d’Israele, per 63 anni consecutivi la vicenda della vita di Sharon e la storia di questo paese si sono intrecciate fra loro.
Sharon ha lasciato il segno in ogni campo: sicurezza, insediamenti, diplomazia e struttura politica dello stato. Pochi leader hanno incontrato tanta popolarità quanto lui. Pochi leader sono rimasti in piedi, come fece lui, al centro di durissime critiche pubbliche. È il destino dei grandi uomini. La loro speciale personalità consente loro di forgiare il volto della nazione che sono chiamati a guidare. Ma la loro volontà di prendere decisioni audaci li rende fortemente controversi.
Sin dalla mia giovinezza ho seguito da vicino Sharon. Sua moglie Lily e mia madre Geula Cohen erano molto amiche. Andammo tante volte a trovarli nella loro fattoria nel sud del paese. Festeggiavamo il compleanno di Arik il 26 febbraio, che per combinazione è anche il giorno del mio compleanno.
Quando decisi di intraprendere la vita pubblica, le realtà ci portò su versanti opposti.
Nel 1982 Sharon, come ministro della difesa, era incaricato dello sgombero delle comunità ebraiche del Sinai, nel quadro dell’accordo di pace firmato con l’Egitto. Io, come capo dell’organizzazione studentesca, mi barricai insieme ai miei compagni in cima al monumento della cittadina di Yamit per protestare contro lo sradicamento degli insediamenti che fiorivano in quella zona.
Più tardi le nostre strade si ricongiunsero ed ebbi il privilegio di servire nel primo governo Sharon (2001-2003) come ministro dell’ambiente e, nel suo secondo governo (2003-2006), come ministro della sicurezza interna e ministro responsabile delle relazioni strategiche e di sicurezza con gli Stati Uniti.
Quelli furono anni particolarmente gravosi e impegnativi per il governo israeliano. Le violenze terroristiche palestinesi, scoppiate dopo i falliti negoziati fra Ehud Barak e Yasser Arafat a Camp David del luglio 2000, reclamavano un pesante tributo di vittime fra gli israeliani. L’operazione “Scudo difensivo”, ordinata da Sharon dopo l’atroce strage perpetrata nel Park Hotel di Netanya durante la cena pasquale del marzo 2002, rappresentò il punto di svolta per la controffensiva.
La settimana scorsa i servizi di sicurezza israeliani hanno pubblicato il loro rapporto annuale da cui emerge che il 2010 ha visto il minor numero di attentati terroristici e il più contenuto numero di vittime da terrorismo, in Israele, dall’anno 2000 a oggi. Non è un caso.
È il risultato diretto di due drammatiche decisione prese dal governo Sharon: la decisione di riprendere il controllo di tutte le città palestinesi di Giudea e Samaria (Cisgiordania) nelle quali, dopo gli Accordi di Oslo, erano state sviluppate sofisticate infrastrutture al servizio del terrorismo, e da dove attentatori suicidi venivano implacabilmente mandati a seminare stragi nel cuore di Israele; e la decisione di erigere la barriera di sicurezza per impedire ai gruppi terroristi di colpire liberamente all’interno del territorio sovrano del paese.
La combinazione di queste due difficili decisioni, unitamente alla competenza unica dei servizi di sicurezza e al valore dei soldati delle Forze di Difesa israeliane, ha restituito una vita normalmente vivibile ai cittadini d’Israele, cui era stata sottratta sin dall’inizio del decennio.
Potrei scrivere un libro intero sugli affascinanti anni di lavoro vicino al primo ministro Sharon.
Vi fu la mattina in cui mi chiese di raggiungerlo alla sua fattoria e di accompagnarlo su un volo d’elicottero a Gerusalemme in modo da mostrarmi gli svariati cumuli di materiale da costruzione abbandonato che infestavano il paesaggio, e darmi disposizione, come ministro dell’ambiente, di approntare un piano nazionale per il trattamento di queste brutture che lo facevano infuriare. Potrei scrivere della sua ferma, inequivocabile posizione sul programma nucleare iraniano, che mi spiegò nei minimi dettagli alla vigilia di una mia trasferta a Washington a condurre il dialogo strategico con l’amministrazione Bush.
Potrei scrivere dell’irremovibile istruzione che mi diede, come ministro dell’interno, di riaprire il Monte del Tempio di Gerusalemme ai visitatori di tutte le religioni, dopo che l’Autorità Palestinese, su ordine di Arafat, per anni non aveva permesso a nessun ebreo di mettere piede in uno dei luoghi più santi della nostra religione.
Potrei scrivere della furibonda discussione che ci divise quando gli spiegai che, nonostante il legame speciale che si era sviluppato fra noi nel corso degli anni, avrei votato contro la sua iniziativa di sradicare le comunità ebraiche di Gush Katif, nel quadro del disimpegno unilaterale dalla striscia di Gaza (dell’estate 2005).
Non è ancora tempo di condividere tutti i dettagli di questi e di molti altri momenti personali ed eventi nazionali che ho avuto il privilegio di vivere con lui. Nel per il momento, tutto ciò che posso fare è continuare a pregare per un miracolo medico che migliori le sue condizioni, e soprattutto continuare a sentire la sua mancanza, come tanti israeliani che ormai da cinque anni sentono l’enorme vuoto di leadership che Sharon ha lasciato dietro di sé
Tzachi Hanegbi