Penso che una delle principali preoccupazioni di Yasser Arafat, verso la fine della sua vita, durante e dopo il summit di Camp David del luglio 2000, fosse come sarebbe stato ricordato dopo la sua dipartita.
E penso che sia stata in parte questa angustia a dettare le sue decisioni in quel periodo cruciale. Quando si sono tenuti le sue esequie, a Ramallah nel 2004, sono certo che l’anima di Arafat stesse guardando giù piena di soddisfazione. Aveva dato al suo popolo ciò che esso aveva disperatamente desiderato: un eroe da venerare, un nuovo Saladino da celebrare; soprattutto, al momento giusto aveva evitato di commettere un fatale errore.
Eh sì, ragazzi, Arafat era stato a un passo dal perdere tutto, a Camp David 2000, firmando un accordo finale: un compromesso che avrebbe poi dovuto far accettare alla sua gente. Ma quanto è beffardo, a volte, il destino: chi avrebbe mai detto che proprio il summit di Camp David gli avrebbe aperto la strada per quell’addio “di gloria” che aveva sempre bramato.
Con quelle dicerie, poi, sul fatto che sarebbe stato avvelenato dal Mossad, la leggenda è diventata perfetta, e Arafat si è assicurato un posto nella storia del suo popolo come il leader-martire che venne assassinato per essersi rifiutato di cedere al-Quds (Gerusalemme) agli israeliani.
Ma, come accade, il trionfo di un uomo è la sconfitta di un altro. Anzi, molti altri sono stati danneggiati a causa dei “sogni di gloria” di Arafat. Affossando Camp David, egli distrusse le speranze del presidente Bill Clinton di arrivare a un accordo che riecheggiasse quello storico di Jimmy Carter (fra Israele ed Egitto), e che avrebbe dato al suo secondo mandato da presidente un magnifico tocco finale. Dal canto suo, l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak fu infine costretto a indire quelle elezioni anticipate che avrebbero spianato la strada al suo rivale, Ariel Sharon, e poi dovette anche dimettersi anche da leader del partito laburista.
Ma il-Khityar, il Vecchio, non fu il solo a uscire vincente dal fallimento di Camp David. Per Hamas iniziava un periodo aureo, cogliendo un’occasione d’oro: i tempi erano maturi per mobilitare le masse (di lì a poco sarebbe scoppiata la seconda intifada, l’intifada delle stragi di civili israeliani) e per riguadagnare la forza e la libertà d’azione che aveva iniziato a perdere all’indomani degli Accordi di Oslo (del 1993). Ora, invece, tutto le veniva offerto su un piatto d’argento dal suo stesso rivale politico palestinese: il processo di pace è fallito, ci hanno negato i nostri diritti, la jihad è la sola via, ve l’avevamo detto eccetera eccetera.
Questo corso fu catastrofico, per la causa palestinese. Ma nessuna obiettiva valutazione della situazione era possibile, mentre si officiava il “martirio” del Vecchio Arafat. Nessuno avrebbe potuto biasimarlo per le tragiche conseguenze delle sue decisioni, essenzialmente le maggiori sofferenze inflitte al suo popolo. E nessuno avrebbe potuto capire il fatto nudo e crudo che quell’uomo aveva appena affossato proprio i processo di pace che lui stesso, pochi anni prima, si era sforzato di far passare come la “scelta strategica” dei palestinesi e degli arabi. Nessuno poteva capire che le cose non sarebbe più state le stesse.
Sebbene molti dettagli circa il summit di Camp David del luglio 2000 e le sue conseguenze rimangano ancora controversi, una cosa è certa: i sogni di gloria di Arafat furono la tragedia del suo popolo. Probabilmente siamo tutti d’accordo che non abbiamo bisogno di un nuovo Arafat: uno è stato più che sufficiente. Ma è essenziale soprattutto capire che non abbiamo bisogno di ripetere gli stessi errori del passato. Di certo nessuno di noi ha bisogno di una terza intifada, che rilancerebbe Hamas o sguinzaglierebbe delle nuove Hamas (e anche qui, una è più che abbastanza).
Dal canto loro, gli israeliani hanno imparato la lezione: non affideranno mai più la loro sicurezza nelle mani dell’Autorità Palestinese, e il record da Guinness dei Primati in fatto di attentati suicidi toccato durante la seconda intifada (un risultato che persino il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ritenne “inimmaginabile”) non sarà mai superato. Anche noi abbiamo insegnamenti da trarre dall’esperienza.
È un peccato, ma è anche tipico della politica mediorientale, che un leader come Mahmoud Abbas (Abu Mazen) debba patire e perdere popolarità perché non è stato all’altezza del modello Arafat. Confido che Abu Mazen non cercherà un addio da eroe. Oggi le cose sono assai più complicate. Per entrambe le parti, questioni come la proroga della moratoria delle attività edilizie ebraiche in Cisgiordania sono veramente marginali, se l’obiettivo ultimo è quello di evitare la strada imboccata nel luglio 2000. E in particolare ad Abu Mazen: per favore, tenga in vita i negoziati, abbia più coraggio. Il suo realismo sarà una benedizione per il suo popolo.
M. Aljayyousi