venerdì, Novembre 22, 2024
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Intervista a Carlo Ruta.

(Di Enrico Natoli) Ci può raccontare la nascita di “accadeinsicilia”? Che tipo di informazione poteva trovare un lettore nelle pagine del sito? 
Faccio una premessa. A partire dalla metà degli anni novanta, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio ho deciso di integrare il mio impegno, prevalentemente di tipo storiografico, con una serie di inchieste sul terreno, su talune realtà della Sicilia, volgendo in particolare l’attenzione sulle aree orientali, da Catania a Gela, da Siracusa a Vittoria. In tali luoghi infuriavano in quel periodo guerre di mafia che sconfessavano il mito di una Sicilia “differente”. Sono stati quindi anni difficili, in cui mi trovavo a fare i conti con avvertimenti di ogni tipo. Raccoglievo gli esiti delle inchieste su libretti che mi venivano pubblicati da “La Zisa”, una casa editrice palermitana, condotta da Maurizio Rizza dell’Istituto Gramsci. E in quel contesto ho scoperto, a fine decennio, il web. Ho valutato le possibilità di comunicazione inedite che mi avrebbe potuto offrire tale strumento, quindi ho creato “Accadeinsicilia”, nel 2001. Sin dall’inizio la mia idea è stata di congiungere le due prospettive: quella storiografica e quella dell’informazione. Dalla prima è nata la sezione “Giuliano e lo Stato”, con altre che documentano l’immagine della Sicilia nei secoli della modernità. Dalla seconda sono scaturite le inchieste sul presente, a partire da quella sull’uccisione del giornalista Giovanni Spampinato. 
Come è avvenuta la chiusura di “accadeinsicilia” e la successiva apertura di “leinchieste”?
 Dopo il 2000 ho deciso di portare l’investigazione sul terreno dei poteri forti. Mi sono occupato, con resoconti cartacei e on-line, di alcune potenti banche, dall’Antonveneta del nord-est alla BAPR, del caso appunto di Giovanni Spampinato, dei nessi fra Danilo Coppola e i salotti della finanza nazionale, di tangenti miliardarie nell’est della Sicilia. Le reazioni al lavoro d’inchiesta si sono fatte allora differenti. I boss avevano dimostrato di possedere una sorta di codice, che in qualche modo me li aveva reso prevedibili. Ne sentivo il fiato addosso, e tuttavia riuscivo ad avvertire in loro una specie di rispetto, seppur malinteso, nei riguardi del mio lavoro. I poteri forti dell’isola, quando si sono sentiti posti in discussione, hanno messo in opera una strategia di attacco che fino ad oggi non ha conosciuto soste. E in tale cornice nel dicembre 2004 è arrivato l’oscuramento di “accadeinsicilia”. Si è trattato di un atto gravissimo, fortemente lesivo di un diritto costituzionale. Ho provveduto quindi, dopo una breve interruzione, a ripristinare Il lavoro di documentazione e d’inchiesta on-line attraverso l’apertura di un altro blog, “Leinchieste” appunto, presso un server degli Stati Uniti. 
Come sono nati i processi? Di cosa è imputato? Come si sono conclusi?
 Quando mi sono occupato delle mafie militari, delle bande che imperversavano nel Gelese, nell’Ippari, nel Siracusano e in altre aree, ho ricevuto circa quindici querele, soprattutto da parte di amministratori pubblici, a vario titolo chiamati in causa. E da tutti i processi che ne sono scaturiti sono uscito vincente. Ma negli anni successivi, quando si sono mossi i potentati finanziari e alcuni ambiti istituzionali, le cose sono cambiate: a partire appunto dall’oscuramento di “Accadeinsicilia”. Solo per aver denunciato gli insoluti del caso di Giovanni Spampinato, oggi riconosciuti pure dalla Commissione Antimafia, sono stato investito, perlopiù su sollecitazione di un magistrato, da otto procedimenti giudiziari per diffamazione, fino a oggi in corso. Nel 2006, fatto che ha suscitato indignazione in Italia, sono stato condannato da un giudice non togato a otto mesi di carcere solo per aver accolto nel blog la testimonianza di un cittadino su un affare di tangenti. Nel luglio 2008 sono stato condannato in Appello, ancora per diffamazione, a un risarcimento inaudito, solo per aver espresso delle critiche, che il giudice di primo grado aveva riconosciuto come legittime, nei riguardi di tre magistrati catanesi, due dei quali fatti oggetto peraltro di diverse interrogazioni parlamentari. Rappresentativa della situazione rimane comunque la condanna, unica in Italia e in Europa, che mi è stata inflitta nel maggio scorso per stampa clandestina, solo per aver curato Accadeincilia, un normalissimo blog appunto, che tuttavia è stato reputato dal giudice Patricia Di Marco né più né meno che un giornale quotidiano.
 Negli ultimi anni ci sono stati altri casi di richieste di risarcimento e di condanne nei confronti di storici e studiosi. In genere le richieste provengono dal mondo politico. Ci può dare il suo punto di vista su questi episodi? Hanno dei punti di contatto con la sua vicenda? Infine, come funziona il rapporto tra informazione e politica? Bossi nel’ 98 diceva che Berlusconi era l’uomo di Cosa Nostra al Nord e oggi governano insieme. Può essere sufficiente la spiegazione che Bossi usa un linguaggio colorito, mentre per gli storici fioccano i processi? 
La querela per diffamazione, come di recente ha bene argomentato Giovanna Corrias Lucente su Micromega, rappresenta oggi un esteso business. Per tradizione costituisce in ogni caso una importante arma che i potentati del paese, centrali e territoriali, possono usare, senza rischi e con guadagno facile, per impedire l’esercizio dell’informazione libera. La censura legale serve in effetti a intimidire il giornalista, detta norme di condotta all’intera categoria, lancia suggerimenti di cautela alle comunità di riferimento, all’opinione pubblica. Mi pare emblematico al riguardo il caso di Paolo Barnard: portato in tribunale da una multinazionale farmaceutica con pretese di risarcimento inaudite, isolato per tale motivo dal team di Report per cui lavorava, privato infine di ogni difesa legale da parte della RAI. Va d’altra parte considerato che il giornalista d’inchiesta, una volta rinviato a giudizio, non sempre può difendersi in modo pieno. Il vincolo della riservatezza della fonte, cui non può sottrarsi, può impedirgli infatti di esibire per intero gli elementi in suo possesso. E non per questo smette di essere, come ci viene ricordato dal mondo anglosassone, il cane di guardia della democrazia. Si può disattivare allora l’arma della querela temeraria, intimidatoria appunto, senza che si debba correre il rischio opposto; quello cioè di una sorta di impunità, in tutto e per tutto, per chi esercita il mestiere di cronista? Delle soluzioni, degne di una democrazia matura, esistono. Dovrebbero essere fissati dei limiti al risarcimento civile, per liberare il giornalista dalla minaccia di una condanna a vita, tale da condizionarne per intero l’iter professionale. Dovrebbe scomparire lo spauracchio delle pene carcerarie perché anacronistiche, incivili, a misura dei regimi autoritari. Dovrebbe essere impedito per legge il “primo colpo” della querela, attraverso la riformulazione dell’istituto della rettifica.
 Perché si avverte l’esigenza di muoversi al di fuori dei canali informativi tradizionali? Quanta parte della storia siciliana e nazionale deve essere ancora raccontata?
 A ragione viene detto che il giornalista d’inchiesta deve possedere l’indole del “lupo solitario”, che lo porta nei luoghi più impervi, i meno accessibili, i più pericolosi, per ciò stesso i più prossimi alle verità taciute. Per quanto mi riguarda, mi trovo spesso a percorrere vie divergenti, che richiedono il massimo di scioltezza operativa. Di certo, tale modo di essere può sollecitare l’approccio a canali informativi differenti. Ed è il mio caso, essendomi espresso maggiormente attraverso i libri e, più di recente, la rete. Ma non esiste una regola precisa, perché, come testimoniano innumerevoli storie personali, da Tommaso Besozzi ai nostri giorni, anche nei media tradizionali, perfino in quelli ostentatamente d’ordine, possono aprirsi varchi d’inchiesta di tipo divergente: cosa che accade quando il cronista riesce a imporre alla proprietà della testata la propria competenza. Per quanto riguarda l’altra parte della domanda, sulla storia non ancora raccontata, la situazione può essere resa come una scena teatrale, al buio, solcata da fasci di luce, che raffigurano lo stato delle conoscenze effettive, liberate cioè, oltre che dalla dimenticanza, dallo stereotipo e dal mito. In tale buio dominante, si perdono gli affari di Stato, lo stragismo, le trame dell’alta finanza, i delitti siciliani degli anni ottanta-novanta. E non solo: si cela tutto quel che non conosciamo, dalle mafie che non sono state mai classificate come tali alle ingiustizie senza voce e senza nome che percorrono il presente. Per il “lupo solitario”, evidentemente, il lavoro non manca. Ma non mancano pure i rischi.
 E in tale scena, come si collocano gli affari dei poteri forti: stanno al buio o alla luce?
 I poteri forti di oggi, quelli che tirano in particolare le fila della finanza, non fanno la democrazia. Costituiscono bensì un punto di collasso della medesima. Tanto più in Italia sono da tenere quindi sotto stretta osservazione. Quelli di un tempo, pensiamo agli Agnelli del primissimo Novecento, potevano permettersi di rispettare le regole di un regime liberale, potendone trarre anche guadagno. E quando tali regole andavano strette esistevano delle vie praticabili: la dittatura, come si ebbe con i fascismi europei degli anni venti e trenta, l’avventura bellica, l’assalto neocoloniale, lo stato d’assedio, e così via. Gli scenari adesso sono cambiati, nell’Occidente tutto, quindi pure in Italia. E negli ultimi tempi, quelli dell’economia senza confini e del web, in modo determinante. Non sono praticabili o consigliabili le svolte reazionarie vecchio stampo. Le guerre sono divenute un affare di pertinenza americana. Trovandosi allora a dover operare su un terreno stabilmente definito, senza poter uscirne con atti di forza dentro o fuori, i potentati finanziari si trovano nella “necessità” di violare in modo strategico le leggi, di corrodere la sostanza democratica, travisandone il senso, con l’adozione di metodi che, avallati da ceti politici ad hoc, non differiscono tanto da quelli delle società “onorate”. E’ un po’ la genesi del berlusconismo, del regime delle impunità dei nostri giorni. Compito essenziale del giornalista d’inchiesta, guardiano appunto delle libertà civili, è allora quello di alzare i sipari delle trame, di togliere la maschera ai poteri che vilipendono lo Stato di diritto, al centro come in periferia, ovunque. E’ utile sottolineare che i potentati finanziari sono forti proprio perché stanno al buio. Quando vengono illuminati diventano vulnerabili e talora, sotto il peso delle loro responsabilità rese pubbliche, si afflosciano. E’ stato il caso del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, referente dei concertisti di Antonveneta. Assume perciò significato strategico la repressione in atto nei riguardi della libera comunicazione, quella che colpisce Paolo Barnard e tanti altri. Rivelano una logica mirata le nuove normative sulle intercettazioni telefoniche. E con tutto questo va coordinandosi l’attacco, destinato probabilmente a fare testo oltre i confini italiani, alla libertà sul web.
 Perché i potentati della Sicilia hanno deciso di spegnere la sua voce? Quale pericolo hanno ravvisato nelle sue inchieste? E lei come reagisce a tali atti repressivi?
 Il giornalista d’inchiesta, se fa il proprio mestiere con correttezza e dedizione, costituisce, come dicevo prima, un pericolo in sé, a prescindere da tutto. Per quanto mi riguarda ho sempre fatto il possibile per essere sufficientemente razionale, distaccato dalle situazioni che mi sono trovato ad esaminare. Ho sempre cercato di tenermi distante dalle paludi, che pure in Sicilia sono insidiose e pervadenti. Probabilmente, si vuole colpire questo mio modo di essere, che peraltro mi ha permesso di comunicare con tanta gente. Credo che non venga sopportato inoltre il mio scrupolo di documentazione, che mi viene un po’ dall’interesse per i fatti storici. E poi, naturalmente, tutto il resto. Come reagisco a tali atti repressivi? Continuando a studiare il passato e il presente, a documentare, a informare. Gli ultimi eventi, comunque, hanno fatto maturare in me una decisione. In quasi venti anni di lavoro ho raccolto un archivio personale che si compone di circa ventimila documenti, in massima parte originali. Con tali documenti ho potuto operare con profitto su una varietà di casi, a partire appunto dalle trame dell’immediato dopoguerra. Ecco, ho deciso di rendere pubblico e fruibile a chiunque questo archivio, spero entro l’anno corrente. E ne sto studiando i modi. Sento infine di dover intensificare il mio impegno sulla linea della libertà di espressione, perché la situazione nel paese, davvero preoccupante, ci sollecita tutti, operatori della comunicazione e cittadini, a una mobilitazione responsabile.

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