sabato, Novembre 23, 2024
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Gerusalemme. Ridefinizione dei confini e annessioni: la necessità di fare chiarezza

Yemini: Se l’ambasciatore Usa parlava dei blocchi di insediamenti, non ha detto nulla di nuovo. Ma uno stato unico dal fiume al mare sarebbe il sogno dei palestinesi: la scomparsa di Israele come stato ebraico
Editoriale del Jerusalem Post e Ben-Dror Yemini
La grande novità del lungo weekend di Shavuot è stata l’intervista al New York Times dell’ambasciatore americano in Israele David Friedman. Friedman ha detto al giornalista David Halbfinger: “Penso che Israele abbia il diritto di trattenere una parte, ma probabilmente non tutta, la Cisgiordania”.
Chiunque abbia seguito gli alti e bassi del processo di pace israelo-palestinese, dagli accordi di Oslo in poi, non è rimasto certo sorpreso dalle parole di Friedman. Tutti i piani di pace e le soluzioni “a due stati” che sono state proposti, da Camp David e Wye Plantation ai progetti di Bill Clinton e Barack Obama, sono fondati sul concetto che ogni soluzione basata sulle linee del 1967 dovrà includere degli aggiustamenti per riflettere le necessità della sicurezza e la realtà sul terreno (in particolare i blocchi di Gush Etzion, Ariel e Ma’aleh Adumim). Ciò che tuttavia questa volta ha suscitato grande subbuglio è che Friedman non ha affermato che l’annessione di parti della Cisgiordania debba avvenire nel quadro di una soluzione negoziata che porti alla nascita di uno stato palestinese. Molti mass-media hanno usato il termine “annessione unilaterale” sebbene né Friedman né il New York Times avessero usato il termine “unilaterale” e nemmeno il termine “annessione”.
L’intervista ha sollevato le ire dell’Autorità Palestinese, con il suo ministero degli esteri che condannava con veemenza le parole di Friedman e minacciava persino di inoltrare formale protesta contro di lui presso la Corte Penale Internazionale. I soliti noti,  come “J Street” e Peace Now, hanno invocato la cacciata di Friedman per incapacità di agire da mediatore. La Casa Bianca si è affrettata a diffondere una dichiarazione che assicura che non vi è stato alcun cambiamento nella politica degli Stati Uniti riguardo alla Cisgiordania.

In giallo/ocra, lo stato palestinese che esisterebbe già oggi (con scambi di territori) se nel 2008 i palestinesi avessero accettato la proposta del premier israeliano Ehud Olmert (clicca per ingrandire)

Tutti avevano qualcosa da dire su Friedman tranne, a quanto pare, il governo israeliano. Membri del Likud come Gilad Erdan, Tzachi Hanegbi e Ze’ev Elkin hanno elogiato le parole dell’ambasciatore, ma non si è vista né sentita una dichiarazione ufficiale del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Forse perché Netanyahu, dopo anni di governo, non ha ancora deciso cosa intende fare con la Cisgiordania. Poco prima delle scorse elezioni del 9 aprile, Netanyahu aveva espresso l’intenzione di estendere la giurisdizione israeliana a tutte le comunità ebraiche in Cisgiordania, ma quella era solo retorica elettorale volta a sottrarre voti ai partiti dell’estrema destra. In realtà, non esiste una espressa politica israeliana sulla questione: Netanyahu non ha preso una decisione ufficiale su eventuali mosse unilaterali, e se esse siano positive per Israele.
Ma qualsiasi soluzione allo stallo tra Israele e palestinesi potrà venire solo dalle parti interessate, non dal sostegno o dall’opposizione proveniente da soggetti esterni, siano essi gli Stati Uniti o l’Unione Europea. Le mosse unilaterali possono provocare caos, vuoti di potere e maggiori violenze: basta guardare alle conseguenze del ritiro di Israele dal Libano meridionale e da Gaza e al conseguente rafforzamento di Hezbollah e Hamas. Ma possono anche favorire una soluzione a lungo termine.
In ogni caso, non è Friedman a dover decidere cosa dovrebbe fare Israele. Gli israeliani hanno il diritto di sentire dalla loro leadership quale visione abbia per la spinosa questione, e non nel contesto di posizionamenti tattici, ma nell’ambito di una soluzione a lungo termine che sia la migliore possibile per gli interessi vitali di Israele.
L’estensione unilaterale della giurisdizione israeliana su ampie sezioni della Cisgiordania o l’annessione di una parte dell’area nell’impossibilità di arrivare a un accordo regionale sono alcune delle opzioni sul tavolo. Netanyahu – specie in vista di nuove elezioni – dovrebbe dirci cosa intende fare.
(Da: Jerusalem Post, 11.6.19)
Scrive Ben-Dror Yemini: In alcune circostanze, ha dichiarato la scorsa settimana l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman, Washington potrebbe riconoscere l’annessione di territori cisgiordani da parte di Israele. Come prevedibile, le parole di Friedman hanno suscitato feroci critiche. I palestinesi lo definiscono “il portavoce dei coloni”. In realtà, invece di incolpare come sempre i “coloni”, i palestinesi dovrebbero solo incolpare se stessi. E dato che siamo nell’era delle “narrative”, cioè delle bugie che pretendono di essere storia, dovrebbero prestare più attenzione ai fatti.
I palestinesi hanno sempre respinto ogni proposta che li avrebbe portati ad avere uno stato. La Commissione Peel del 1937 offriva agli ebrei solo il 4% della terra inizialmente destinata alla “sede nazionale ebraica” dal Mandato della Società delle Nazioni sulla Palestina del 1922, e solo il 17% della Terra d’Israele a ovest del fiume Giordano. La parte araba disse no. Nel 1947, le Nazioni Unite proposero uno stato ebraico sul 55% della Palestina occidentale. La parte araba disse no. La guerra d’indipendenza che seguì all’attacco militare arabo si concluse con il 78% della Terra d’Israele ad ovest del Giordano nelle mani degli ebrei. Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni, sorse l’idea di offrire agli arabi i territori catturati nel conflitto in cambio delle pace. La parte araba rispose con i famigerati “tre no” di Khartoum. A quanto pare, dunque, il principale fattore che ha portato all’ampliamento dell’entità ebraica è il continuo rifiuto del mondo arabo. Hanno detto di no più e più volte, e di conseguenza ogni volta hanno perso parte del territorio.
Ora i palestinesi reclamano le linee del 1967, che a lungo in passato palestinesi e arabi hanno respinto con la massima veemenza. Ma quando gli vengono offerte, non le vogliono accettare. Negli ultimi due decenni, ci sono state varie proposte che offrivano ai palestinesi fino al 95% dei territori più ulteriori terre a compensare la percentuale mancante: dalla proposta del presidente Bill Clinton alla fine del 2000, a quella del primo ministro Ehud Olmert nel 2008, e quelle del segretario di stato Usa John Kerry e del presidente Barack Obama nel 2014. Secondo ognuna di queste proposte di pace, i principali blocchi di insediamenti – che comprendono circa il 5% della Cisgiordania – rimarrebbero nelle mani degli israeliani. Se è di questo che parlava l’ambasciatore Friedman, non ha detto nulla di nuovo. Il punto è che non è chiaro cosa intendesse Friedman: parlava dell’annessione di porzioni di territorio nello spirito delle proposte di pace o dell’annessione della Cisgiordania vagheggiata dai coloni più estremisti? La prima è un’opzione del tutto legittima, purché nel quadro di un accordo. La seconda sarebbe un disastro che porterebbe alla scomparsa di Israele in quanto stato ebraico.
Il continuo rifiuto palestinese di tutte le plausibili proposte di compromesso sta favorendo la lenta marcia verso la soluzione che accomuna l’estrema destra e la sinistra anti-israeliana: un unico paese (destinato a diventare l’ennesimo paese arabo, cancellando l’unico stato dove si esercita l’autodeterminazione ebraica ndr). Il fatto è che in questo modo i palestinesi stanno raggiungendo il loro obiettivo storico. Commentando le parole di Friedman, l’alto esponente palestinese Ziad Abu Ziyad ha detto che l’annessione avvenga pure, purché sia l’annessione di tutti i territori per creare uno stato unico dal fiume al mare.
(Da. YnetNews, 11.6.19)
 

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