Che governo e Knesset abbiano sede a Gerusalemme non è mai stato oggetto di negoziato. Trump dice agli arabi: chi vuole davvero la pace negozi sulle questioni vere.
Di Elliott Abrams
La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele è una decisione assolutamente corretta, innanzitutto per un semplice motivo: perché Gerusalemme è la capitale di Israele.
Quali che siano i confini municipali definitivi che verranno decisi dagli israeliani, quali che siano i confini e gli ordinamenti comunali che potrebbero emergere alla fine dei negoziati di pace, quale che sia ogni altra cosa che Gerusalemme potrebbe diventare un giorno (compresa la capitale arabo-palestinese), una cosa è assolutamente certa: Gerusalemme è la capitale di Israele.
L’anomalia non è che Trump lo abbia riconosciuto. L’anomalia è che non fosse successo fino ad oggi. E’ la ragione è ovvia: la paura per l’opposizione di arabi e i palestinesi.
Nell’amministrazione Bush ci trovammo di fronte a una questione analoga quando il presidente George W. Bush prese in considerazione l’idea di dichiarare, come poi fece nel suo scambio di lettere ufficiali del 14 aprile 2004 con l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, che (in un futuro accordo) Israele avrebbe mantenuto i principali blocchi di insediamenti e che non esiste nessun “diritto al ritorno” dentro Israele dei “profughi” palestinesi e dei loro discendenti. Sapevamo che vi sarebbero state feroci contestazioni, ma sapevamo anche che Bush non avrebbe fatto altro che proclamare un fatto: avrebbe semplicemente detto la verità. I contrari dicevano: “Renderete la pace impossibile”, ma noi sapevamo che era vero il contrario: le bugie e la negazione della realtà sono ciò che rende la pace impossibile. Dire la verità avvicina la pace. Una volta esauriti i discorsi furibondi di Abu Mazen, Saeb Erekat e altri, una volta trascorso un po’ di tempo, i negoziati potranno continuare come fecero dopo il carteggio Bush-Sharon (che, per inciso, aprì la strada al ritiro totale di Israele dalla striscia di Gaza).
Trump non sta distruggendo i suoi stessi sforzi per la pace: li sta radicando nella realtà. E ha fatto un’altra cosa importante: ha reagito ai pronostici di violenza arabi e palestinesi con lo sprezzo che meritano. Quei “pronostici” sono in realtà vere e proprie minacce e Trump aveva perfettamente ragione di respingerle senza cedere al ricatto.
Cosa si obietta, in fondo, a questa presa d’atto della realtà (che esplicitamente non pregiudica le decisioni future nel negoziato)? Saeb Erekat ha protestato dicendo che non spetta a un presidente americano decidere la capitale di Israele. Giusto. E non spetta nemmeno all’Olp o all’Onu. Spetta solo a Israele.
In ogni caso, Gerusalemme ovest non è oggetto di discussione nei negoziati di pace. Sono controversi i confini esatti della città e le aree che dovranno essere sotto controllo israeliano e palestinese, ma Trump non ha fatto nulla per dirimere quelle questioni. Anzi, ha detto esplicitamente che saranno le parti a dirimerle con il negoziato. Il trasferimento dell’ambasciata americana dovrebbe essere ora un problema puramente pratico, legato all’acquisizione di un lotto di terreno adatto e alla costruzione di un complesso di uffici e strutture residenziali. Ci vorranno anni, ma è cosa assai meno importante del riconoscimento legale che Gerusalemme è la capitale, e che è a Gerusalemme che deve risiedere l’ambasciata.
Perché questa decisione fa progredire la pace? Come le affermazioni contenute nelle lettere di Bush del 2004, essa dice ai palestinesi e ai governi arabi che devono rispettare la realtà e negoziare su questioni serie. In sostanza, Bush diceva: se siete seriamente impegnati per la pace, non iniziate sostenendo che Maale Adumim deve essere sgomberato o che ogni profugo palestinese e i suoi figli, nipoti e pronipoti devono avere la possibilità di insediarsi a Haifa (anziché nel futuro stato palestinese). Perché è una sciocchezza. Analogamente, in qualunque futuro colloquio di pace non si parlerà affatto di trasferire a Tel Aviv la Knesset o l’ufficio del primo ministro o la residenza del presidente d’Israele. Anche queste sono sciocchezze. Se siete seriamente impegnati per la pace non dovreste avere nulla da ridire sulla decisione di Trump, giacché essa non ha nessun impatto sulle questioni di cui bisogna negoziare. Sempre che si voglia davvero negoziare.
Naturalmente vi saranno critiche da entrambe le parti. In Israele vi sarà chi lamenterà il fatto che Trump non ha riconosciuto la sovranità israeliana su ogni centimetro di Gerusalemme nei confini municipali attuali. Anzi, ha detto che quei confini dovranno essere stabiliti nel negoziato fra le parti. Da parte araba si sosterrà che Trump ha distrutto ogni possibile negoziato: come se la presenza degli organi di governo israeliani a Gerusalemme fosse oggetto di negoziato; come se Trump avesse detto sui confini della città proprio quello che alcuni israeliani gli rimprovereranno di non aver detto.
È vero invece che tutte queste mosse americane, dalle lettere di Bush del 2004 alla dichiarazione odierna di Trump, mostrano il pieno sostegno americano alla legittimità e ai diritti di Israele, incluso il diritto di fare ciò che ogni paese fa: scegliere la propria capitale. Ma è proprio questo è il punto. Il rifiuto di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele fa parte del rifiuto della piena e normale legittimità dello stato ebraico. Fa di Israele un paese di serie B fra le nazioni del mondo, consolidando un senso di provvisorietà e di diritti limitati. E’ come dire: “Oggi loro sono qui, ma in futuro le cose potrebbero essere diverse”. Ecco perché la decisione di Trump è giusta e importante. Perché dice: “Oggi loro sono lì e ci saranno per sempre. E sono lì perché è loro diritto, non per una concessione provvisoria”.
Donald Trump non ha fatto di Gerusalemme la capitale di Israele più di quanto le Nazioni Unite non abbiano fatto di Israele lo stato ebraico. Ha semplicemente riconosciuto un dato di realtà. E la verità è la base migliore per avanzare verso la pace tra Israele e i suoi vicini e tra Israele e il resto del mondo.
(Da: Ha’aretz, 7.12.17)