Il direttore di Times of Israel: “Non c’è stato nessuno che mi abbia detto che non c’era niente da fare. Da giornalista, critico spesso il mio paese ma oggi sono fiero dello Stato di Israele”
Poche ore dopo il suo arrivo all’aeroporto di Ben Gurion, giovedì mattina, la giornalista e dissidente iraniana Neda Amin, che temeva d’essere espulsa dalla Turchia verso il suo paese natale, ha ringraziato Israele in una conferenza stampa per averle offerto rifugio e averle salvato la vita.
Durante l’incontro coi giornalisti negli uffici di Gerusalemme di Times of Israel, Neda Amin, 32 anni, da tempo blogger freelance sul sito web in persiano della testata israeliana, ha descritto la sua angoscia all’idea che la Turchia, dove viveva come rifugiata dal 2014, potesse deportarla in Iran. Avendo scritto articoli critici verso il regime, se fosse stata costretta a tornare nella Repubblica Islamica Amin era praticamente sicura che sarebbe stata arrestata e torturata. “Sono molto felice, Israele è il mio paese” ha detto nel suo poco inglese, aggiungendo di sentirsi finalmente “al sicuro” perché “qui nessuno vuole attaccarmi o arrestarmi”. Ha poi proseguito in persiano, grazie a un interprete: “Intanto sono stata soccorsa e salvata. Poi, se le autorità israeliane mi daranno il permesso, mi piacerebbe con tutto il cuore restare a vivere qui. In caso contrario, rispetterò la loro decisione”.
Minacciata di espulsione dalla Turchia, Amin aveva fatto appello alle Nazioni Unite che nel 2015 l’avevano designata come “rifugiata”, così come a varie organizzazioni per i diritti umani e a vari paesi. Ma tutti le dicevano di aspettare pazientemente. “L’unico paese che ha agito in modo rapido è stato Israele – ha detto in conferenza stampa – Al contrario di tutte le cose che si dicono, specialmente in Iran, sul conto di Israele, io ho visto Israele agire concretamente a difesa dei diritti umani e per salvare la vita di un essere umano. Se fossi stata deportata in Iran – ha continuato Amin – avrei subito arresti, torture, violenze e sarei stata costretta a confessare cose che non ho mai fatto. E’ questo che succede alle persone accusate di collaborare con il regime sionista: vengono regolarmente accusate di queste cose e alla fine uccise. Era questa la prospettiva che mi atterriva”. (Da: Times of Israel, 10.8.17)
Scrive David Horovitz, direttore di Times of Israel: «Alla fine del mese scorso conoscevo a malapena il nome di Neda Amin. Giornalista, blogger di origine iraniana e attivista per i diritti umani, critica verso il regime, aveva lasciato l’Iran per la Turchia nel 2014 e da lì l’anno scorso aveva scritto un pezzo come freelance per Times of Israel. Fino a stamattina non l’avevo mai incontrata e non avevo mai nemmeno parlato con lei. Ma poi ci ha contattati e ci ha detto che la sua vita era in pericolo. Curava un blog su Times of Israel in persiano, uno dei nostri siti in lingua straniera. E il fatto che scrivesse per un sito di notizie israeliano, insieme ad altri suoi scritti altrove, le aveva reso la vita molto difficile in Turchia. Ci ha detto – per iscritto e in alcune conversazioni telefoniche molto brevi – che la sua vita era in pericolo. Era stata ripetutamente interrogata dalla polizia turca e adesso le era stato detto che rischiava di essere espulsa dal paese. Di più, se nessun paese l’avesse accolta, le venne detto, sarebbe stata rimandata in Iran dove poteva accadere il peggio. Ci ha detto che avrebbe dovuto essere protetta dalle Nazioni Unite, ma non credeva che ciò l’avrebbe tenuta al sicuro. Non aveva scritto contro le autorità turche, ma le fu messo in chiaro che le sue critiche pubbliche al regime iraniano e la sua collaborazione con un sito israeliano non erano tollerabili. A quel punto ha contattato le autorità israeliane presentato la richiesta di essere accolta qui.
Neda parla un po’ di inglese, abbastanza per dirmi al telefono: “Signor Horovitz, salvatemi per favore”. Dopo aver raccolto maggiori dettagli, ho contattato alcune persone – israeliane e no – che ritenevo potessero consigliarmi e aiutare Neda. E l’hanno fatto. La disponibilità ad aiutare è stata decisamente notevole. Praticamente non c’è stato nessuno mi abbia detto che non c’era niente che si potesse fare o tentare. Neda ha detto di avere lontane origini ebraiche (la madre del suo defunto padre era ebrea). Non so se questo abbia in qualche modo motivato la risposta israeliana. Tendo a pensare di no (i feriti siriani curati negli ospedali israeliani, tanto per dire, non hanno nessun nonno ebreo). Non so quale delle persone a cui mi sono rivolto sia stata determinante. D’altra parte non ero l’unico a muovermi: la ong “UN Watch” aveva lanciato una petizione e l’Associazione Giornalisti di Gerusalemme aveva interpellato direttamente il ministro dell’interno Aryeh Deri. Quello che so è che, poco dopo aver comunicato i particolari del caso di Neda, le autorità israeliane si sono messe in movimento. Qualsiasi controllo dovesse essere fatto, è stato evidentemente fatto. Qualunque decisione dovesse essere presa, evidentemente è stata presa. Al consolato israeliano di Istanbul, il console generale Shai Cohen e la funzionaria Yaffa Olivitski hanno stabilito un contatto con Neda e hanno fatto di tutto pur di aiutare. Sono state preparate tutte le carte necessarie. E mi è stato detto che Neda avrebbe potuto decollare per Israele con il visto necessario. Siccome Israele in generale, e Times of Israel in particolare, erano uno dei fattori che mettevano in pericolo la vita di Neda, sentivo che avevamo il dovere di fare di tutto per cercare di garantire che non le venisse fatto alcun male. Chiaramente, lo Stato di Israele ha avuto lo stesso sentimento.
La sua partenza non è andata del tutto liscia. Quando è arrivata la prima volta all’aeroporto per partire per Tel Aviv è saltato fuori che mancava un modulo che doveva essere rilasciato dalla polizia turca. Senza, non le veniva permesso di partire. Purtroppo a quel punto il suo telefono cellulare era scarico e per alcune ore abbiamo perso i contatti. Qualcuno da qualche parte ha tirato conclusioni affrettate e ha fatto circolare la notizia fra i mass-media israeliani che Neda era stata arrestata. Non era vero, e due giorni dopo – nelle prime ore del mattino di giovedì – è tornata all’aeroporto, modulo alla mano, ed è potuta salire sul suo volo per Tel Aviv. Con il suo cane, devo aggiungere: un pastore tedesco di 27 chili di nome Chica.
Ho trascorso parte della giornata di giovedì con Neda, ascoltando un po’ di più della sua storia. A suo dire, l’anno e mezzo appena trascorso è stato difficile e spaventoso. Dice che è stata convocata non meno di sei volte per essere interrogata dalle autorità di sicurezza turche che l’hanno accusata di essere una spia e le hanno offerto grandi somme di denaro perché lavorasse per loro, minacciandola di espulsione in Iran. Durante un interrogatorio, lei ha chiesto: “È illegale in Turchia scrivere per i mass-media israeliani?”. No, le è stato detto. “Allora perché tutte queste indagini?”. “Perché – è stata la risposta – non ci piace lavorare con Israele e non ci piace che tu lavori con Israele”. Neda dice che recentemente qualcuno si è introdotto nel suo appartamento e pensa che sia stata Chica a mettere in fugo l’intruso, chiunque fosse. Dopo di allora, per settimane non ha dormito a casa avendo troppa paura per farlo. Infine le è stato detto che dal 5 agosto in poi avrebbe potuto essere espulsa in Iran in qualunque momento, e lei stava cercando di opporsi nei tribunali turchi a questa ordinanza quando Israele le ha aperto le porte.
Sono sicuro che c’è molto di più, nella sua storia, e non ho idea di come andrà avanti. Ma nella mia qualità di giornalista che spesso critica, e parecchio, quello che si fa in Israele e chi si preoccupa per molti aspetti del futuro di questo paese, oggi posso dire che mi sento alquanto fiero dello Stato di Israele. Abbiamo ritenuto che una vita fosse in pericolo e abbiamo agito per garantire che il pericolo fosse sventato. Un piccolo episodio, nella vita della nostra nazione. Ma un gran bel piccolo episodio.» (Da: Times of Israel, 10.8.17)