Il trattamento riservato a Israele dimostra da anni una discesa nel relativismo amorale
Di Isi Leibler
Una generazione fa la parola “male” aveva un significato. Non c’erano cuori teneri – certamente non ce n’erano fra gli ebrei – che minimizzavano il più possibile la malvagità dei nazisti. Il male era il male.
Oggi, con il relativismo morale imperante, il mondo ha di fatto abbandonato il concetto di male, sostituendolo con una “sofisticata” correttezza politica nella quale gli aggressori e le vittime sono spesso considerati eticamente equivalenti. Così, ad esempio, chi denuncia il terrorismo islamico viene accusato di islamofobia.
Naturalmente c’è uno “shock” di fronte alle stragi e alle decapitazioni ad opera di fondamentalisti islamisti, ma ci viene detto che è fuorviante descrivere questi comportamenti come “malvagi” perché questo distoglie l’attenzione dalla vera causa, che naturalmente sta nello sfruttamento coloniale, nell’imperialismo occidentale eccetera. E più e più volte sentiamo ripetere il mantra che è la sofferenza economica e sociale quella che causa la disperazione e fornisce l’incentivo per il reclutamento jihadista. E poco importa se in realtà la maggior parte dei terroristi dell’ISIS che colpiscono nelle città occidentali, come già quelli di al-Qaeda di dieci-quindici anni fa, sono persone provenienti da famiglie della classe media e che hanno potuto studiare.
Non basta. I governi occidentali che si trovano oggi a fare i conti con attentati terroristici ad opera di sostenitori dell’ISIS “in sonno” cresciuti all’interno dei loro stessi paesi, seppelliscono la testa nella sabbia rifiutandosi di affrontare la realtà del nemico malvagio rappresentato dal fondamentalismo islamista incubato in quelle comunità musulmane i cui membri ordinari non hanno la volontà o il coraggio di smascherare i jihadisti in mezzo a loro.
Al cuore di tutto questo c’è il rifiuto di identificare e affrontare la minaccia del fondamentalismo islamista per quello che è: un male globale che mira a distruggere il patrimonio morale e civile ebraico-cristiano e la democrazia liberale, e sostituirli con la legge della sharia e il califfato.
Questo sfuggire all’utilizzo di concetti come bene e male è ben evidente nel trattamento riservato da anni a Israele che, in questo senso, è veramente – come il canarino nella miniera di carbone – un faro puntato sulla discesa globale nel relativismo amorale. Qualche esempio.
Israele è l’unica democrazia nella regione del Medio Oriente: una società basata sul diritto, sull’eguaglianza e su una libertà di espressione senza riserve. Nonostante vicini arabi ostili che perseguono la sua distruzione, garantisce piena uguaglianza politica a tutti i suoi cittadini, arabi ed ebrei allo stesso modo. Basta visitare un ospedale, un centro commerciale, una università o un parco pubblico per rendersi conto di quanto sia vergognoso usare termini come apartheid in riferimento a Israele. Si confronti questa società con l’Autorità Palestinese e il regime di Hamas, società criminali che violano i diritti umani più basilari e promuovono apertamente il terrorismo. I loro imam glorificano i cosiddetti shahid, i martiri, e le madri si vantano con orgoglio in tv dei loro figli martirizzati nel compiete attentati, esprimendo la speranza che altri figli ne seguano le orme. Autorità Palestinese e Hamas pagano consistenti pensioni alle famiglie dei terroristi rimasti uccisi mentre assassinavano ebrei o detenuti nelle carceri israeliane per lo stesso motivo. Scuole, piazze e squadre sportive vengono intitolate in loro onore. E ogni volta che viene ucciso un ebreo, scoppiano celebrazioni spontanee nelle strade palestinesi. Una vera cultura della morte. Eppure la comunità globale continua a mettere sullo stesso piano morale (quando va bene) la democrazia israeliana e la criminale società palestinese. Il male viene ignorato.
Due primi ministri israeliani, Ehud Barak e Ehud Olmert, sono stati respinti da Yasser Arafat e dall’attuale presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) quando hanno offerto ai palestinesi il 97% dei territori che erano occupati dalla Giordania prima del ’67. Il primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha fatto concessioni più ampie di quelle che Yitzhak Rabin aveva mai pensato di fare, a partire dall’appoggio esplicito alla soluzione a due stati (condizionata a concrete garanzie di sicurezza e al riconoscimento palestinese di Israele come stato nazionale del popolo ebraico). Ma l’obiettivo palestinese rimane quello di sempre: porre fine alla sovranità ebraica attraverso un processo per fasi, esigendo concessioni senza alcuna reciprocità. Eppure la comunità globale accusa entrambe le parti allo stesso modo per la rottura dei negoziati, nella migliore delle ipotesi. Ma di solito addita solo Israele come unico responsabile. Di nuovo, si nega l’esistenza di un male equiparandolo a tutto il resto.
Oggi il Medio Oriente ricorda il Medioevo, con mezzo milione di civili innocenti massacrati e più di quattro milioni profughi costretti a lasciare le proprie case. Invece di occuparsi di queste atrocità, Washington si mette alla testa della demonizzazione di Israele per la costruzione di abitazioni in borgate ebraiche. Questa ossessione per gli “insediamenti” – che, a parte Gerusalemme, comprendono il 3% dei territori di Cisgiordania occupati dai giordani prima del ‘67 – è decisamente bizzarra. Nessuno sosterrebbe mai che un arabo israeliano non ha il diritto di costruire su una proprietà che ha acquistato perché questo impedisce la pace. Invece, gli ebrei che hanno regolarmente acquistato terreni al di là della cosiddetta Linea Verde vengono additati come il peggiore ostacolo alla pace, quando non la causa prima di ogni terrorismo. Non è grottesco che un israeliano che si costruisce una terrazza sulla sua casa in un quartiere di Gerusalemme possa innescare ritorsioni e sanzioni, mentre a pochi chilometri di distanza stragi e devastazioni continuano senza sosta?
Leader e mass-media occidentali fanno mostra di codardia quando si piegano agli islamisti lasciando intendere che atrocità del terrorismo, come accoltellare a morte una ragazza israeliana di 13 anni nel suo letto, sono una forma di “resistenza all’occupazione”. E’ spregevole che rappresentanti americani ed europei rimangano in silenzio quando il presidente dell’Autorità Palestinese riceve una standing ovation dopo aver ripetuto infami calunnie contro Israele e aver di nuovo negato qualsiasi legame tra ebrei e Gerusalemme. Quando i rappresentanti occidentali si astengono o addirittura votano a favore di risoluzioni Onu che demonizzano e delegittimano lo stato ebraico, si fanno complici attivi del male.
Questo mettere sullo stesso piano morale il male e le sue vittime – un atteggiamento che è all’ordine del giorno quando si tratta di Israele – è uno dei fattori che sta portando al collasso globale della fiducia delle masse nei paesi democratici. Il rifiuto e l’incapacità di affrontare, persino di nominare il malvagio nemico rappresentato dal fondamentalismo islamista sta minando la stabilità politica globale e sta generando una rivolta della base contro l’establishment. Così crescono i partiti nazionalisti e xenofobi, mentre le persone vedono con orrore come le loro società non sono più capaci di chiamare il male con il suo nome. La speranza è che tali rivolgimenti portino a un risveglio delle coscienze e a leadership più responsabili e coraggiose, capaci di combattere il male senza ambiguità e senza reticenze.
In questo contesto Israele non è mai stato forte come oggi perché conosce i suoi nemici, le loro intenzioni e sa come difendersi. E c’è da sperare che venga finalmente riconosciuto come un alleato costruttivo e prezioso nella guerra globale contro il fondamentalismo islamista, smettendola di farne il capro espiatorio dei fallimenti della leadership globale attuale in fatto di lucidità e determinazione.
(Da: Jerusalem Post, Israel HaYom, 21.7.16)