…… veicolano, piuttosto, una versione dei fatti assai discutibile
Da un editoriale del Jerusalem Post
Nel suo celebre saggio del 1946 La politica e la lingua inglese, George Orwell affermava che i buoni scrittori dovrebbero “buttare nella pattumiera, dove meritano di stare” alcune locuzioni logore e inutili come “il tallone d’Achille”, “il canto del cigno” e altre simili “scorie del linguaggio”. Se si dovesse applicare il principio di Orwell ai resoconti odierni da Israele, l’elenco dei termini insensati e deleteri colpirebbe impietosamente gran parte di ciò che viene detto e scritto.
Vengono infatti comunemente usati, come se fossero neutrali, dei termini cruciali che sono invece carichi di un significato che va al di là di quello oggettivo. L’uso e l’abuso che se ne fa, ripetendoli all’infinito, condiziona inevitabilmente la capacità delle persone di capire e il modo con cui si reagisce.
Purtroppo queste parole costituiscono un sottoinsieme di quella categoria di eufemismi noti come linguaggio “politicamente corretto”, che spesso non è né politicamente utile né moralmente corretto, in particolare per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese.
“In effetti, è il lessico che definisce i termini del conflitto, e che definisce cosa pensare del conflitto – dice Ari Briggs, direttore di Regavim, una ong israeliana che si occupa di questioni legali relative al suolo pubblico – Benché il lavoro dei giornalisti, credo, sarebbe innanzitutto quello di riportare notizie, non appena si utilizzano certi termini ci si fa portavoce di certe opinioni e interpretazioni, e non più solo di fatti”.
Come funziona? Il punto è che nei discorsi sul Medio Oriente alcuni termini hanno conosciuto un’evoluzione peculiare, tutt’altro che neutrale. La parola palestinesi, tanto per citare un esempio, veniva usata per indicare la popolazione ebraica della Palestina sotto Mandato Britannico, e la parola coloni indicava gli ebrei palestinesi che, prima e durante il Mandato Britannico, creavano insediamenti agricoli e urbani facendo rifiorire terre desertiche o paludose già un secolo prima che comparisse la “nazione start-up”. Oggi il termine palestinesi è stato sequestrato per indicare esclusivamente la parte araba della popolazione, e il termine coloni viene usato in senso dispregiativo per fare riferimento agli ebrei che vivono nella cosiddetta Cisgiordania, associandolo automaticamente a etichette come estremismo o razzismo.
E – a proposito – che ne è stato dei nomi Giudea e Samaria, usati fino a tutta la prima metà del Novecento per indicare due regioni a ovest del fiume Giordano? I termini Giudea e Samaria, latinizzazione operata dagli occupanti romani dei tradizionali nomi ebraici Yehuda e Shomron, continuano a essere usati dalle autorità israeliane, ma sono stati bocciati dai mass-media di tutto il mondo che li hanno sostituiti con il termine Cisgiordania (in inglese,West Bank o riva occidentale), vale a dire con il termine adottato dal governo giordano nel 1950 quando cercava di legittimare la sua occupazione illegale di quelle due regioni in seguito all’aggressione militare del 1948. Cosa vi sarà di “politicamente corretto” nel preferire un termine posticcio e abusivo al posto di quello che è stato usato dall’antichità sino a tutta la guerra d’indipendenza d’Israele?
Il che ci porta ad un altro termine non geografico che tutti usano, ma pochi capiscono: la Linea Verde. Questo termine, usato come sinonimo di “la linea di confine sulla quale Israele dovrebbe ritirarsi”, in realtà non è mai stata un confine internazionale, ma solo una linea tracciata sulle mappe del 1949 per indicare la linea di cessate-il-fuoco sulla quale si attestavano le parti al momento degli armistizi che ponevano fine alla prima guerra araba contro lo stato d’Israele appena nato. Merita ricordare che fu proprio su insistenza della parte araba se nel testo degli armistizi venne scritto a chiare lettere che quella linea non era da intendere in alcun modo come una frontiera definitiva e “non avrebbe pregiudicato i diritti, le rivendicazioni e le posizioni delle parti”. La Linea Verde, poi, cessò di esistere con la guerra dei sei giorni del 1967, quando gli armistizi di diciannove anni prima vennero calpestati dall’aggressione approntata dagli eserciti di Giordania, Egitto e Siria.
Un altro termine carico di ideologia ma geograficamente privo di significato è Gerusalemme est. La particolarissima bussola usata dai mass-media stranieri nella capitale d’Israele sembra avere un solo punto cardinale: l’est. In realtà a Gerusalemme non esiste nessun quartiere chiamato “Gerusalemme Est” come esiste ad esempio una East London: esistono invece diversi quartieri meridionali, settentrionali, occidentali e orientali. Ma questo non turba minimamente giornalisti e politici stranieri che usano il termine Gerusalemme est come sinonimo di “Gerusalemme occupata”, e paradossalmente continuano a parlare di “Gerusalemme est” anche a proposito di Gilo, il quartiere più meridionale della capitale che sorge su terreni acquistati prima del 1948 da Dov Joseph per conto del Fondo Nazionale Ebraico. Certo che Gilo un tempo è stato territorio occupato: era territorio israeliano occupato dai giordani fra il 1948 e il 1967, ma dopo di allora è tornato sotto la legittima sovranità di Israele. Evidentemente cancellare dalla bussola il nord e il sud serve per dimenticare che, nel ventennio di occupazione giordana, i quartieri di Gerusalemme abitati da ebrei erano strettamente assediati su ben tre lati, una condizione che sarebbe folle ripristinare.
Sempre a Gerusalemme, il linguaggio di giornalisti e osservatori sta per essere sottoposto a una nuova offensiva propagandistica da parte dell’Autorità Palestinese la quale, nel suo costante tentativo di riscrivere la storia cancellandone il ruolo e la presenza degli ebrei, ha cercato di ottenere che la BBC smettesse di usare il termine Monte del Tempio per riferirsi all’altopiano di Gerusalemme su cui vennero eretti il Primo e il Secondo Tempio del popolo ebraico. Secondo i novelli censori del pensiero lo si dovrebbe tassativamente chiamare Haram al-Sharif (il Nobile Santuario) per sottolineare che oggi ospita la Cupola della Roccia e la Moschea di al-Aqsa. Ma naturalmente, se il Tempio ebraico non è mai esistito, come vorrebbero certi eruditi palestinesi e la loro propaganda, allora anche Gesù non l’ha mai visto e non vi ha mai pregato, e dunque cosa resta del racconto dei Vangeli?
(Da: Jerusalem Post, israele.net, 1.10.15)