(di David Horovitz) Benvenuti nell’ultima puntata della surreale realtà d’Israele, in questo malefico, instabile, e tanto religioso Medio Oriente.
A nord, imperversa l’anarchia in Siria, con un conflitto spietato che ogni tanto trabocca minacciosamente al di qua del nostro confine: un conflitto con più 150.000 morti, milioni di profughi, indifferenza globale e medici siriani che mandano i loro feriti in Israele dove gli viene salvata la vita.
A est, ci troviamo di fronte a estremisti palestinesi che si sono dimostrati capaci di rapire e uccidere non solo i nostri soldati, ma anche i nostri adolescenti. Più a est, gli estremisti dello “Stato Islamico (dell’Iraq e del Levante)”, tanto feroci da far sembrare al confronto relativamente miti gli altri gruppi terroristici, fanno conquiste in Iraq e puntano a minacciare la Giordania (che confina con Israele). Nelle loro vicinanze, il regime iraniano, che detesta Israele, pretende un numero di centrifughe (per arricchire l’uranio) venti volte più alto di quello che una comunità internazionale assai incline al compromesso potrebbe consentire per il suo “pacifico” programma nucleare.
Ed ora, a sud, ci troviamo trascinati in un altro pesante round del conflitto contro Hamas, che insiste, per nessun motivo remotamente plausibile, a sparare razzi sempre più all’interno di Israele da una enclave dove non c’è più alcuna presenza di militari o civili israeliani da nove anni.
Siamo solo al primo giorno di quella che le Forze di Difesa israeliane hanno definito Operazione Protective Edge (Margine protettivo) e già sono perfettamente prevedibili le linee del pensiero internazionale: dal momento che, almeno fino a questo momento, ci sono dei morti a Gaza ma nessun morto in Israele, è evidente che la reazione israeliana è eccessiva e aggressiva.
Diventa faticoso, un conflitto dopo l’altro, ma rimane comunque necessario esortare opinionisti e politici all’estero a fare almeno un minimo sforzo, a guardare un po’ più da vicino, ad esercitare almeno un pizzico di onestà intellettuale. E riconoscere l’incontrovertibile dato di fondo: se non ci fossero stati i lanci di razzi da quella enclave che non è nemmeno contesa, non ci sarebbe nessuna reazione israeliana e nessuno starebbe morendo.
La triste realtà di fatto è che, sia prima che dopo il ritiro di Israele dalla striscia di Gaza nel 2005, i terroristi nella enclave palestinese hanno continuato a sparare indiscriminatamente su Israele, gongolando di gioia ogni volta che riuscivano a mutilare qualche israeliano e strillando come aquile verso la comunità internazionale ogni volta che Israele, reagendo, colpiva involontariamente quei civili di Gaza che proprio i gruppi terroristici avevano messo in pericolo.
Che gli israeliani non muoiano in numero maggiore non ha nulla a che fare con Hamas e gli altri gruppi terroristici. Loro fanno sempre del loro meglio per uccidere civili. Hanno continuato assiduamente a importare e produrre clandestinamente armi e munizioni tanto che ora dispongono di centinaia di missili che possono arrivare fino a Gerusalemme, Tel Aviv e oltre, implorando intanto la comunità internazionale di porre fine ai controlli di sicurezza israeliani in modo da poter importare mezzi ancora più potenti al solo scopo di ammazzarci.
Se gli israeliani non stanno morendo in gran numero è solo perché Israele ha mantenuto quei severi controlli ai confini di Gaza, pagando un prezzo altissimo in termini diplomatici e di immagine. E perché invece di mettere i propri cittadini sulla linea di fuoco, come fa Hamas per guadagnarsi le pietà e la simpatia internazionale, Israele ha costruito sistemi di allarme, rifugi antiaerei, aree protette e (costosissimi) sistemi di difesa anti-missilistica fra i più sofisticati al mondo, per cercare di tenere la propria gente al sicuro.
Gaza avrebbe potuto prosperare, dopo che nel 2005 Israele ne aveva sradicato i suoi 8.000 civili da più di venti insediamenti. I palestinesi di Gaza avrebbero potuto costruire un’isola di democrazia. Gli investitori internazionali non mancavano e gli investimenti sarebbero cresciuti, come era avvenuto nella prima metà degli anni ‘90 quando investitori palestinesi espatriati, credendo che tempi migliori fossero a portata di mano grazie agli accordi con Israele, alimentarono un breve boom immobiliare. Le spiagge dorate di Gaza potevano diventare una promettente attrattiva turistica. Se Gaza fosse diventata una zona passabilmente stabile, Israele non solo avrebbe allentato i controlli alle frontiere, ma si sarebbe sentito abbastanza fiducioso da tentare un analogo ritiro unilaterale dalla Cisgiordania (che aveva già avviato).
Ma l’ostilità verso Israele era troppo profonda e i palestinesi di Gaza non sono riusciti a trattenersi nemmeno il tempo necessario per ingannarci e spingersi a fidarci di loro. Poche ore dopo che i coloni e i militari se n’erano andati, i palestinesi di Gaza hanno fatto a pezzi le serre che i coloni avevano abbandonato, buttando in pattumiera il loro più prezioso potenziale economico. E i razzi non hanno mai cessato di volare. E nel 2007 Hamas, apertamente votata alla distruzione di Israele, ha buttato fuori con la violenza le forze del relativamente moderato presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), prendendo il controllo assoluto sulla tutta la striscia.
E’ fin troppo ovvio che è facile iniziare una guerra e assai più difficile sapere dove può andare a finire. Ora noi guardiamo con ansia il ricorso alla forza che prende il suo corso imprevedibile. Nei giorni scorsi si è vista la dirigenza israeliana cercare chiaramente di non essere trascinata in un’altra grande offensiva contro Hamas: ma la sua offerta, la sua invocazione “calma in cambio di calma” è stata totalmente ignorata. Ora trepidiamo per i lanci di missili su Tel Aviv e Gerusalemme, e siamo in angoscia per le implicazioni di una possibile offensiva di terra.
Gli analisti ipotizzano che Hamas stia sparando una parte dei suoi 100.000 razzi perché non ha niente da perdere, ha perso il sostegno dell’Egitto di al-Sisi e del siriano Assad, non ha più i soldi per pagare gli stipendi, deve “vendicare” diversi suoi terroristi morti in un tunnel che stavano imbottendo di esplosivo per un attentato contro Israele, cerca di riaccreditarsi come l’unica credibile “resistenza” contro Israele…
Ma, sul serio, ancora una volta: che bisogno c’è di “resistere” se Israele non è più a Gaza e da tempo ha interiorizzato la necessità di trovare un accordo con i palestinesi sia di Gaza che di Cisgiordania, e se questo accordo può essere raggiunto solo il giorno in cui non si metta più in pericolo l’esistenza di Israele e la vita dei suoi abitanti? Perché?
Perché, per Hamas, l’ostilità verso il fatto stesso che esista Israele supera di gran lunga – sempre e comunque – qualsiasi altra ragione o interesse.
(Da: Times of Israel, 8.7.14)