martedì, Novembre 26, 2024
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Il kalashnikov è di sinistra?


Mikhail Kalashnikov
Mikhail Kalashnikov

Lo scorso 23 dicembre è morto, all’età di 94 anni, Mikhail Kalashnikov inventore dell’omonimo fucile. Per tale “merito”, egli fu insignito per ben due volte del titolo di “eroe del lavoro socialista” dell’Urss e di “eroe della Russia” di Putin.
Pur col rispetto dovuto al fervore patriottico del suo inventore, c’è da restare quantomeno perplessi per questo triplice riconoscimento che due regimi ideologicamente contrapposti hanno conferito all’ideatore di un terribile strumento di morte divenuto l’arma più diffusa nel mondo.
Sul kalashnikov (AK-47) si sono dette e scritte tante cose. Taluni, muovendo dal fatto che  essendo stato assegnato in dotazione alle forze dei Paesi ex socialisti e ai reparti di resistenza e/o di guerriglia, sono giunti a etichettare questo fucile come una sorta di “arma di sinistra”.
Oggi, specie dopo il crollo del blocco sovietico, tale definizione appare, a dir poco, impropria poiché il kalashnikov, in parte superato da nuove tipologie e tecnologie, viene usato diffusamente anche dalla criminalità organizzata e da gruppi terroristici integralisti religiosi che con la sinistra non hanno nulla a che fare.
Ovviamente, per sinistra s’intende quel complesso di partiti e movimenti che vogliono effettivamente cambiare lo stato di cose presente e non certa “robetta” scaduta, oggi prevalente in Italia e in Europa, ma anche in Cina, che vorrebbe contrabbandare come riformismo socialista la propria subalternità al dio mercato e al grande capitale finanziario che lo domina.
E qui mi fermo, poiché desidero parlare del kalashnikov in base al ricordo di un’esperienza vissuta, nel 1981, nel deserto del Sahara Occidentale .
Fu qui, infatti, che vidi, per la prima volta, quest’arma cucita addosso ai guerriglieri saharoui che ci scortavano in quel viaggio, lungo e accidentato, intrapreso, in compagnia di altri parlamentari italiani, su invito del Fronte Polisario che lottava, (ancora lotta) per l’autodeterminazione del suo popolo.
Il programma della nostra missione consisteva in visite ai campi profughi dov’erano ammassati decine di migliaia di saharoui (soprattutto donne, bambini e vecchi), in colloqui con i principali dirigenti del Fronte e in un sopralluogo a Guelta Zammur, una collinetta fortificata al confine con il deserto mauritano considerata strategica poiché sovrastava una sorgente (guelta) d’acqua chiara, l’unica in quella desolata regione.
Sapevamo che per possesso di tale “guelta” si erano affrontati, un mese prima, le forze regolari marocchine che la presidiavano e reparti combattenti del Polisario che sostenevano di averla conquistata.
Una vittoria contestata, negata (dalle autorità marocchine) che la delegazione parlamentare andava a certificare mediante una constatazione de visu.
Nella battaglia erano caduti, da entrambi le parti, centinaia di combattenti a molti dei quali non fu data nemmeno una degna sepoltura. Vedemmo corpi, pezzi di corpi umani, affiorare, semisepolti, dal sottile strato di sabbia che li copriva.
Migliaia di morti per una conca d’acqua che, quasi per una beffa del destino, non era più potabile poiché avvelenata dai marocchini in ritirata. Noi stessi, per dissetarci, dovemmo raggiungere un pozzo posto a circa cento km di distanza.
Le jeep filavano dentro quel deserto piatto e brullo. A parte un paio di pastori, secchi e scuri come una carruba ragusana, non incontrammo in quel lungo cammino altre tracce d’umanità. La notte si dormiva all’addiaccio, sotto un tetto di vivide stelle, ognuno dentro un fosso ch’egli stesso s’era scavato nella calda sabbia per combattere gli effetti algidi dell’escursione termica.
Ogni tanto una sosta per sgranchirci le gambe. Intorno al pentolino del the si fraternizzava con quei giovani guerriglieri che non si staccavano un attimo dal loro fucile d’ordinanza.
Ci parlarono, con un entusiasmo quasi sportivo, della recente battaglia e del kalashnikov come del fucile più efficiente in circolazione: leggero, duttile e preciso “ riusciva a colpire- dissero-  con micidiale precisione, un bersaglio posto a 700 metri”.
Vista la nostra assoluta incompetenza in fatto di armi, i fedayn- per risultare più convincenti-  ci  proposero di provarlo. Quasi a dire: provare per credere.
Anch’io tirai un colpo per curiosità, quasi per gioco. Una mattina, addirittura, imbracciai  il fucile, così per celia, per indurre l’on. Tessari a fare le abluzioni mattutine.
Tuttavia, per quanto nobili fossero le ragioni della loro lotta, quell’elogio un poco mi atterriva, specie dopo aver visto tutti quei corpi semisepolti.
Immagini indelebili, ossessive che s’intrecciavano con quelle delle cataste di armi e di mine antiuomo e anticarro affastellate sul pianoro. Infatti, la zona tutt’intorno alla sorgente era minata. Gli sminatori  avevano aperto un corridoio per consentire il nostro passaggio. Per tutto il tragitto di avvicinamento ci era stato caldamente sconsigliato di abbandonare lo stretto corridoio da poco sminato.
Tutti questi rischi per una conca d’acqua?
Interrogativi intimi, pensieri nascosti, forse da tutti condivisi ma inespressi.
Non riuscivo a liberarmi di quel funesto assillo, di quella mortifera relazione fra il fucile e quei corpi, quegli arti inanimati.
Sentivo, forte, una sensazione di repulsione, di sgomento per l’infamia delle armi verso le quali nutrivo un’innata avversità.
Contrarietà che diventerà rifiuto dopo aver percepito meglio, più distintamente, come membro   della commissione difesa della Camera dei Deputati, gli intrecci perversi, spaventosi, e assai lucrosi, esistenti fra produzione, commercio e uso delle armi.
Oggi, il tempo vissuto, le lotte pacifiste e le tragiche conseguenze delle guerre in corso mi hanno convinto dell’inutilità delle armi ai fini della lotta politica, del ricorso alle guerre anche quelle cosiddette “umanitarie” o “fraterne” e di ogni forma di terrorismo (rosso, nero, verde, ecc) che della guerra è la degenerazione più odiosa. Per progredire, l’umanità ha bisogno di pace e di solidarietà!
Storicamente, la sinistra italiana ed europea si è sempre ispirata alla pace, ha  rifiutato la guerra e il metodo terroristico.  A maggior ragione oggi in situazioni dove sono garantite le libertà fondamentali (di voto, di espressione, di associazione) l’unica “arma” è la scheda elettorale. Bisogna solo saperla usare.
Nel passato, talvolta, abbiamo sottostimato, perfino deriso, certe esperienze basate sulla “non-violenza”. A mio parere, oggi, è tempo di ricredersi e di assumere quel metodo di lotta politica come uno dei valori fondanti della nuova sinistra che, prima o poi, rinascerà  dalle ceneri della sedicente sinistra attuale che, pur essendo al governo, non riesce (non vuole) a bloccare certe forsennate spese militari.
Ovviamente, sappiamo che è difficile parlare di non-violenza a chi lotta contro un’occupazione straniera o contro una crudele dittatura per affermare i diritti  all’indipendenza e alla libertà dei popoli.
Tuttavia, secondo i casi, la non- violenza potrebbe essere la soluzione. La lotta dell’India di Gandhi è uno degli esempi di riferimento.
D’altra parte, il conflitto del Sahara Occidentale dura da troppo tempo, insoluto e sempre più intriso di odio e propositi di vendetta. Dal 1976. Con i marocchini barricati dietro un lunghissimo muro di sabbia (un altro muro di cui non si parla!) che segna il confine del cd. “triangolo utile” e i saharoui rimasti “padroni” della parte restante del Paese ossia del  vasto ed arido deserto nel quale hanno insediato il loro simulacro di  Repubblica araba saharoui democratica (Rasd).
Da oltre 30 anni, nessuno dei due contendenti riesce a prevalere militarmente sull’altro, mentre  la “comunità internazionale” cincischia, rinvia, non riesce a imporre una soluzione politica secondo i principi della Carta dell’Onu.
Un conflitto dimenticato che dilania un popolo altrettanto dimenticato, nel quale si confrontano aspirazioni legittime e avide pretese sub imperialiste che stanno portando l’Africa alla deriva, alla completa rovina.
Insomma, nel Sahara occidentale, come in tante altre realtà conflittuali, si è dimostrato che il kalashnikov non ha reso l’indipendenza al popolo saharoui.
Checché se ne dica delle sue favolose virtù micidiali, il kalashnikov non è la soluzione. In ogni caso non può essere etichettato di sinistra o di destra, è solo un’arma che, al pari di tutte le altre, va bandita.
Agostino Spataro

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