Alla fine di maggio 2011, abbandonando una lunga tradizione della politica americana, il presidente Obama ha convenuto sulla necessità che Israele riconosca le linee pre-’67 come condizione di partenza per un accordo di pace con l’Autorità Palestinese. Questa idea, incentrata su una visione quasi dogmatica della regione, implica una concezione fondamentalmente sbagliata che pregiudica le già deboli possibilità di assicurare la sicurezza e una pace duratura sia agli israeliani che ai palestinesi.
Quando di tratta di affrontare la questione dei cambiamenti territoriali intervenuti in seguito alla guerra del 1967, è diventato senso comune negli ambienti decisionali arabi e occidentali credere che la posizione più moderata disponibile sia quella che offre una soluzione a due stati genericamente definita sulla base delle linee fra Israele e stati arabi prima della guerra dei Sei Giorni. Questa posizione teorica permette di cogliere la logica sostanzialmente fallace che immobilizza i gruppi pacifisti e gli attivisti filo-palestinesi.
In realtà, mai come nel periodo fra il 1948 e il 1967 i palestinesi di Giudea/Samaria (Cisgiordania) e striscia di Gaza sono stati sotto un dominio chiaramente e apertamente militare, ad opera di potenze straniere. Prima del 1967, le aspirazioni di autonomia delle popolazioni arabe che vivono in quei territori non vennero minimamente prese in considerazione, mentre la nozione di uno stato separato per i palestinesi veniva usata unicamente per negare legittimità all’esistenza dello stato ebraico. L’idea di base di Nasser e di re Hussein di Giordania era quella di “gettare gli ebrei a mare”; i loro personali propositi erano legati alla gloria che un tale evento avrebbe loro procurato.
La sconfitta finale del nazionalismo pan-arabo sconfisse i palestinesi tanto quanto i loro precedenti protettori poiché, privati della relativa sicurezza che era loro garantita dai covi sotto controllo arabo, non potevano più organizzare impunemente le loro operazioni terroristiche.
Se le linee del ’67 furono la cornice ideale per alimentare aggressioni, guerre e brame di annientamento, la domanda che logicamente sorge spontanea è: come mai il concetto di “confini del ‘67” è diventato così sacro, nel discorso politico delle organizzazioni internazionali, dei gruppi di pressione e dei gruppi militanti? Ebbene, al di là del semplice controllo del territorio, l’appello per un ritorno ai cosiddetti “confini del ‘67” può essere letto come un modo implicito per negare la realtà da parte di coloro che dalla realtà sono stati sconfitti.
Come mai, mentre viene denunciata a gran voce la presenza militare israeliana in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e anche a Gaza (dove peraltro non c’è più), non viene mai detto praticamente nulla dell’occupazione militare di quegli stessi territori da parte degli stati arabi per due interi decenni? La ragione di fondo sta nel fatto che i commentatori occidentali hanno acriticamente abbracciato l’argomento della “solidarietà araba” in base al quale, secondo una logica piuttosto contorta, l’autore di un’ingiustizia viene considerato meno criminale se lui e la sua vittima sono entrambi arabi che si fanno del male nel corso della lotta contro una potenza non-araba.
I vari appelli da parte degli stati arabi a tornare alle linee di demarcazione pre-’67 indicano la loro condizionata disponibilità a riconoscere per lo meno il dato di fatto dell’esistenza di Israele, ma in una regione privata di uno strumento cruciale per raggiungere e far durare la pace: garanzie comuni di sicurezza.
I “confini del ‘67” coincidono nell’immaginario collettivo arabo con l’epoca durante la quale la sovranità e la sicurezza dello stato d’Israele erano tenuti sotto scacco e potevano essere minacciati in qualunque momento. Gli anni prima del 1967 rappresentano infatti l’epoca in cui gli stati arabi, non i palestinesi, erano al centro della guerra contro Israele. In questo senso la sconfitta significò, fra l’altro, l’inizio della stagione in cui gli stati arabi avrebbero solo sponsorizzato le organizzazioni terroristiche, non stando più direttamente sotto i riflettori. Invocare il ritorno a quelle linee è una strategia volta ad annullare la realtà storica e cancellare due decenni di sconfitte militari.
Il vero interrogativo, dunque, è perché le organizzazioni internazionali, i governi occidentali e i gruppi di pressione siano così facilmente sedotti da un’idea che manca di logica. Nel 1967, come nel 1948, i confini fra stati arabi e Israele non erano riconosciuti come base ufficiale per una soluzione a due stati, cosa che apparve evidente nella famigerata risoluzione araba di Khartoum subito dopo la guerra del 1967.
Il concetto di “confini del ‘67” dovrebbe essere contestato non solo alla luce delle considerazioni sollevate da varie parti politiche e da esperti della sicurezza, ma anche perché scaturisce da un discorso chiaramente discordante con la pace. Una pace stabile e duratura può essere raggiunta soltanto sulla base di una chiara cognizione degli eventi che hanno avuto luogo in precedenza e della concreta situazione che si manifesta nel presente, in particolare la indisponibilità dei palestinesi ad avviare negoziati che siano basati su interessi condivisi anziché su pre-condizioni di principio.
Sostenendo il concetto di “confini del ‘67” la comunità internazionale non fa che riproporre un quadro in cui le potenze arabe occupavano militarmente Cisgiordania e striscia di Gaza conducendo e appoggiando attacchi militari e terroristici contro Israele: una logica fallace che compromette radicalmente gli sforzi orientati alla pace.
Riccardo Dugulin
(Da: YnetNews, 6.1.13)
DOCUMENTAZIONE
UN ERRORE STORICO, UN OSTACOLO POLITICO, UN NONSENSO LOGICO
«Parlare di confini del ’67 porta necessariamente con sé l’impressione che qualunque assetto che si discosti da quelle linee non possa che essere eccezionale, transitorio, in qualche modo sbagliato e innaturale. E dunque bisognerà ricordare che gli unici confini internazionali d’Israele sono quelli con Egitto, Giordania e Libano, mentre le linee armistiziali del 1949, esse sì provvisorie, che separavano la Cisgiordania da Israele non sono mai diventate confini permanenti né riconosciuti: men che meno dagli stessi stati arabi, i quali insistettero affinché nel testo degli armistizi fosse esplicitamente scritto che “le linee di demarcazione non sono in alcun modo concepite come frontiera politica o territoriale e non pregiudicano i diritti, le rivendicazioni e le posizioni delle parti circa la composizione finale della questione palestinese”. Così l’art. V comma 2 dell’Accordo d’Armistizio Israelo-Egiziano del 24 febbraio 1949. L’intero Accordo è definito del tutto ininfluente riguardo ad ogni aspetto della futura composizione politica del conflitto dall’art. IV comma 3. Identico concetto è ribadito nell’art. II comma 2 dell’Accordo con il Libano (23 marzo 1949), nell’art. II comma 2 dell’Accordo con la Giordania (3 aprile 1949), e negli artt. II comma 2 e V comma 1 dell’Accordo con la Siria (20 luglio 1949). Se invece, sia in sede politica che didattica, si continua a parlare di confini del 67, diventa poi difficile spiegare lo spirito e la lettera della Risoluzione Onu 242 (1967), e spiegare come mai tutte le rilevanti proposte di composizione territoriale – dagli accordi di Oslo degli anni ’90, ai piani di Camp David del luglio 2000, ai punti di Bill Clinton del dicembre 2000, alle offerte di Taba del gennaio 2001 – si basano sul principio che il futuro confine fra Israele e vicini arabi non è già stabilito. Lo stesso accordo “virtuale” di Ginevra firmato da private personalità israeliane e palestinesi nel dicembre 2003 – la proposta di compromesso forse più avanzata che sia mai stata formulata – prevede spostamenti del confine rispetto alla Linea Verde del 1949-67. D’altra parte, come potrebbero le parti concordare un futuro confine che risponda quanto più possibile alle rispettive esigenze (sicurezza, omogeneità demografica, continuità territoriale ecc.) se quel confine fosse già stabilito sulle mappe politiche e diplomatiche dall’arbitraria linea di un cessate il fuoco di sessant’anni fa? A che servirebbe dunque il negoziato? Chiamare confine quella linea è un errore storico, un ostacolo politico e un nonsenso logico. Averlo fatto per decenni, in ogni sede politica e giornalistica, non lo rende meno insensato.»
[Da: Marco Paganoni, “Insegnare la storia d’Israele. Riflessioni preliminari sull’esperienza con studenti italiani”, in: AA. VV., Il mio cuore è a oriente. Studi di linguistica, filologia e cultura ebraica, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, Milano, 2008]
Si veda anche:
Linee del ’67: a un tiro di schioppo. Sul nuovo sito MyIsrael, una spettacolare fotografia che vale più di mille discorsi
http://www.israele.net/articolo,3239.htm
Narrazione araba e verità storica. Perché la risoluzione 242 non esige un ritiro sulle linee pre-’67, e di Gerusalemme non parla nemmeno
http://www.israele.net/articolo,3475.htm
Miti e realtà post-’67. Israele elabori una sua politica, senza lasciare che si impongano le mistificazioni di nemici ed estremisti
http://www.israele.net/articolo,3453.htm
L’assurda pretesa araba di far girare all’indietro la storia. Pur di ribadire il “diritto al ritorno”, Abu Mazen è pronto a sacrificare i palestinesi di Siria
http://www.israele.net/articolo,3635.htm
Quella formula per la pace che pare così ovvia (ma non funziona)
Si fa presto a dire confini