A quanto pare, quando verrà il momento di scrivere la storia del processo di pace israelo-palestinese, il presidente Usa Barack Obama verrà ricordato come una sorta di apprendista stregone che fa più danni che benefici. Sembra quasi che non perda occasione per spingere il processo su un binario morto.
L’ha fatto di nuovo con la sua recente dichiarazione secondo cui Israele, in base a qualunque accordo di pace coi palestinesi, dovrebbe ritirarsi sulle “linee del 1967”. Obama sembra del tutto ignaro del fatto che l’attuale stato di cose nel mondo arabo, così fluido e instabile e offuscato dalla massima incertezza circa gli sviluppi futuri dei vicini di casa di Israele, non rappresenta certo il momento più propizio per chiedere a Israele di assumersi rischi vitali.
E sembra ignorare la coalizione che è stata recentemente formata tra Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e i terroristi Hamas di Gaza, cosa che ha di fatto rimosso ogni parvenza di un interlocutore palestinese per i negoziati di pace con Israele, almeno per il momento.
E tuttavia, Obama esorta Israele ad accettare di ritirarsi su quelle che erano le linee armistiziali con la Giordania del 1949. Quelle linee, come Obama sa certamente, correvano 10 chilometri a est dell’area metropolitana di Tel Aviv, e nel cuore stesso della città di Gerusalemme, la capitale d’Israele, spaccandola in due.
Tutto è iniziato due anni fa, quando Obama al Cairo aveva fatto appello per un congelamento di tutti gli insediamenti al di là delle linee armistiziali del 1949, mettendo in chiaro che con questo intendeva la cessazione di ogni attività edilizia anche in quelle zone nord, est e sud di Gerusalemme che sono rimaste sotto occupazione giordana nei 19 anni fra la guerra d’indipendenza d’Israele e la guerra dei sei giorni del 1967. Come c’era da aspettarsi, i negoziatori palestinesi non poterono mostrarsi “meno palestinesi” del presidente degli Stati Uniti. E così, tutt’a un tratto, il congelamento di ogni attività edilizia divenne la loro imprescindibile precondizione per la ripresa dei negoziati con Israele, e ciò rappresentò la fine dei negoziati diretti israelo-palestinesi.
[Lo scorso 24 aprile Abu Mazen dichiarava a Newsweek: “Obama mi ha invitato a salire con una scala sull’albero del congelamento degli insediamenti. Ho accettato e sono salito, ma poi la scala è stata tolta e Obama mi ha detto: adesso salta”.]
Per un momento è sembrato che Obama si fosse reso conto dell’errore che aveva fatto costringendo i negoziatori palestinesi su una posizione insostenibile. Aveva infatti ripiegato sulla richiesta di un congelamento temporaneo degli insediamenti (che Israele ha fatto); ma i palestinesi avevano ormai puntato i piedi sulla sua posizione precedente, per cui alla fine dovette lasciar cadere l’intera questione. Ma a quel punto Obama aveva già intralciato il processo di pace in modo determinante.
Ora chiede a Israele di ritirarsi sulle “linee del 1967”, e così allontana i palestinesi di un altro passo dal processo di pace: un passo da gigante, e ci vorrà parecchio tempo per porvi rimedio. Se e quando i negoziatori palestinesi si rifaranno vivi, il consenso di Israele a un ritiro sulle “linee del 1967” come enunciato dal presidente degli Stati Uniti sarà la loro nuova precondizione per l’avvio dei negoziati. Adesso non possono più accettare nulla di meno. Ma è una richiesta che Israele non può accogliere, e così eccoci a un altro punto morto “made in Washington”.
[Lunedì scorso, 23 maggio, il negoziatore palestinese e membro dell’esecutivo dell’Olp Saeb Erekat ha dichiarato che i palestinesi riprenderanno i negoziati solo se Israele riconoscerà le linee del 1967 come base dei futuri confini: “Finché non sentiremo queste parole – ha detto Erekat – discutere di altre questioni è solo una perdita di tempo”.]
Senza dubbio Obama è animato dalle migliori intenzioni, ma i risultati sono a dir poco sconfortanti. Anziché promuovere il processo di pace israelo-palestinese, è riuscito a creare solo nuovi ostacoli sul suo percorso.