Le agenzie d’informazione occidentali hanno puntigliosamente sottolineato “la lezione” che i loro governi devono trarre dai tumultuosi avvenimenti in Medio Oriente delle scorse settimane.
Il monito più diffuso che circola riguarda il sostegno militare e politico che Stati Uniti e Unione Europea hanno accordato a “dittatori” e “regimi repressivi” del mondo arabo, giudicato immorale (dai mass-media di sinistra) o scriteriato (dai mass-media di destra). Tutto vero, in una certa misura.
Ma, in fatto di comportamento ipocrita verso il mondo arabo, i giornalisti dovrebbero dare anche un’occhiata dentro casa loro.
Con l’esplosione di copertura mediatica su Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Giordania e ora Libia si può essere facilmente indotti a pensare che le agenzie d’informazione abbiano sempre dedicato tempo ed energie ai temi della repressione e delle violazioni dei diritti umani in questi paesi. Ma non è così.
A parte qualche sporadico accenno, qua e là nel corso degli anni, ai governi autocratici del Medio Oriente, è innegabile che vi è stata pochissima copertura giornalistica mirata e costante sulla triste condizione in quei paesi.
I fruitori occidentali dei mass-media a stampa, radio-televisivi e on-line si imbattevano in notizie dal mondo arabo quasi esclusivamente nell’ambito di reportage sull’indignazione araba collettiva per le presunte violazioni dei diritti umani perpetrate contro civili, non certo in casa loro, bensì – assai convenientemente – al di là del confine, in Palestina, per mano dei cattivi israeliani.
Prima che iniziasse questo terremoto, nessun corrispondente occidentale documentava, settimana dopo settimana, le ingiustizie che subivano quotidianamente milioni di persone in quelle società chiuse, dove le libertà fondamentali sono l’eccezione più che la regola, i dissidenti vengono sbattuti in galera o assassinati, e i capi di stato semplicemente non rendono conto in alcun modo alle loro popolazioni.
La reazione del Guardian alla rivoluzione di gennaio in Tunisia è un caso classico. Nell’editoriale pubblicato dopo la fuga del presidente Ben Ali si parlava di un “brutale dittatore e della sua corrotta famiglia”, di uno “stato di polizia”, di “torture e violazioni dei diritti umani”. L’editoriale assegnava anche alla Francia un “premio ipocrisia sfacciata” per il suo ruolo nel puntellare quel regime, con Stati Uniti e Unione Europea che seguivano “a ruota”.
Tutto giusto. Ma da quand’è che il Guardian si preoccupa così tanto di questo brutale dittatore e della povera popolazione che viveva nella morsa del suo stato di polizia? In base ai calcoli della stessa testata, nel 2010 la Tunisia è stato uno dei paesi meno trattati al mondo: 114esimo su un totale di 194, con soltanto 18 “articoli sull’argomento” nel 2010. Per avere un’idea, nello stesso periodi vi erano stati 1.008 pezzi su Israele.
La mancanza, fino ad ora, di interesse giornalistico per ciò che accade nei ventuno paesi arabi (quando non è implicato Israele) emerge chiaramente dal modo in cui vengono assegnati i corrispondenti stranieri nella regione. Si considerino le cinque testate britanniche Times, Financial Times, Daily Telegraph, Guardian e Independent. Ciascuna ha due o tre corrispondenti fissi in Medio Oriente. In tutti i cinque i casi, almeno uno dei corrispondenti sta a Gerusalemme. L’Independent e il Times tengono permanentemente in Israele due dei loro tre giornalisti.
Quelli che non stanno in Israele, fanno base fissa e mandano i loro servizi da Libano e Dubai, in un caso dall’Iraq. È da qui che deriva la mancanza di reportage, finora, circa quegli spietati stati di polizia e quelle autocrazie che sono (o erano) l’Egitto, la Tunisia, la Libia, il Bahrain, lo Yemen ecc. Le testate britanniche avevano tutte le loro risorse concentrare a coprire gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e gli atti delle forze di sicurezza israeliane, dei quali di conseguenza tutti vengono a sapere praticamente ogni più piccolo dettaglio, anche insignificante.
Pure il New York Times farebbe bene a riflettere se fosse veramente saggio dare spazio agli editoriali di un dittatore come Muammar Gheddafi perché pontificasse su come si debba portare la giustizia in Israele -Palestina, mentre domina su uno dei regimi più repressivi e ingiusti al mondo: se non altro perché poi fanno la figura di stolti quando, due anni dopo, quello stesso capo si trova asserragliato a Tripoli da dove giura di uccidere tutti i suoi concittadini che hanno osato esprimere disapprovazione per il suo governo.
Ad ogni modo, ben venga la nuova attenzione dei mass-media sul vero Medio Oriente. Ma sarà interessante vedere se questa passione appena nata per gli eventi e le realtà della regione si tradurrà in una ridefinizione della priorità delle risorse. C’è da sperare, ad esempio, che il Times e l’Independent sacrifichino uno dei loro corrispondenti a Gerusalemme in nome di una rappresentazione più diversificata e aderente alla realtà di una regione in cui, a quanto pare, accadono molte altre cose oltre al conflitto israelo-palestinese.
Carmen Gould