Il Medio Oriente si trova nel mezzo di uno sconvolgimento storico. Ma, nonostante quello che chiedono le piazze arabe sia chiaramente il cambiamento dei loro regimi, c’è ancora chi sostiene che il ritiro d’Israele dalla Cisgiordania sarebbe la ricetta giusta per ristabilire la stabilità nella regione. Nulla potrebbe essere più lontano dal vero.
In realtà, proprio in questo momento un affrettato ritiro di Israele sulle linee armistiziali del 1949-67 si dimostrerebbe catastrofico per le speranze di democrazia in Medio Oriente. Se passi avanti devono esservi, devono essere fondati piuttosto sul concetto di confini difendibili.
Mentre il mondo si aspetta che la Libia sia la prossima tirannia a cadere, è tutt’altro che sicuro che l’uscita di scena di Muammar Gheddafi venga seguita dalla democrazia. Anche in Egitto e Tunisia la strada verso libertà e governi realmente rappresentativi è lastricata di incertezze. La democrazia non è che uno degli sbocchi possibili: altri possono essere un governo militare, la teocrazia e tante gradazioni possibili di autocrazia.
Il Libano è, se mai ce ne fosse bisogno, il più recente caso atto a ricordarci che la versione mediorientale della democrazia è, nel migliore dei casi, assai tenue e sempre in balia di forze antidemocratiche. Il Libano costituisce una rarità, in Medio Oriente, giacché gode di elezioni relativamente libere per un parlamento pluripartitico. Eppure lo scorso gennaio gli Hezbollah, sostenuti dall’Iran, hanno architettato lo smantellamento del governo del primo ministro Saad Hariri e la sua sostituzione con un fantoccio del movimento terrorista sciita. Sfruttando gli strumenti democratici, l’Iran ha rafforzato la sua presa sul paese.
Solo cinque anni fa il Libano sembrava pronto per la libertà, dopo che la “rivoluzione dei cedri” aveva estromesso la Siria. Non ci vuole una grande fantasia per immaginare la “rivoluzione dei gelsomini” tunisina e la “rivoluzione di Facebook” egiziana degradare in modo simile.
Anche Israele ha commesso l’errore di affidarsi a democrazie troppo acerbe.
Il ritiro senza condizioni dalla striscia di Gaza nel 2005 venne annunciato come un’occasione d’oro per l’Autorità Palestinese di introdurre libertà, crescita economica e stato di diritto. Invece le industrie di Gaza, prima fiorenti, sono state fatte marcire, e la povertà è rimasta. Cogliendo l’occasione, un altro scagnozzo degli iraniani, Hamas, ha preso le redini del potere abbattendo con estrema violenza il Fatah di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), i cui ufficiali sono dovuti fuggire per mettere in salvo la vita. Più di cinque anni dopo, le comunità israeliane nel Negev subiscono ancora gli attacchi di razzi da Gaza.
Con Hamas votata alla distruzione di Israele, la comunità internazionale preme su Gerusalemme perché si affidi con maggiore fiducia nelle mani di Abu Mazen. Ma il regime di Abu Mazen non è certo un modello di buon governo. Il suo mandato come presidente dell’Autorità Palestinese è scaduto più di un anno fa, e le elezioni parlamentari sono ugualmente in ritardo. Abu Mazen, evidentemente terrorizzato che il suo debole potere possa essere il prossimo bersaglio dei tumulti arabi, a fine febbraio si è precipitato a indire elezioni. Nondimeno, questa democrazia fallimentare è il regime al quale, secondo le pressioni di tanti, Israele dovrebbe affidarsi ritirandosi dalla Cisgiordania.
Quand’anche Abu Mazen volesse genuinamente riformare la sua autorità introducendo autentici principi democratici e un sistema di controlli e contrappesi, resta comunque l’evidente pericolo che Hamas, sostenuta dai suoi padrini iraniani, ripeta il trucco di Gaza.
Nel momento in cui il Medio Oriente si trova a un crocevia storico, un ritiro sulle indefinibili linee armistiziali del 1967 è un rischio che Israele semplicemente non si può permettere, e che soggetti come Hamas sono fin troppo ansiosi di sfruttare.
Sicuramente un ritiro dalla Cisgiordania non farebbe che incoraggiare i fondamentalisti ispirati dall’Iran, che sperano di aggiungere il fronte orientale ai fronti conquistati a sud (Gaza) e a nord (Libano). Non basta. Sul piano regionale, altre forze estremiste come la Fratellanza Musulmana trarrebbero ispirazione da quella che verrebbe percepita come una capitolazione di Israele, aizzando la loro fame di potere in Egitto, Tunisia, Libia e altri paesi il cui futuro è ancora tutto da decidere.
Dunque un tale ritiro non metterebbe a repentaglio solo Israele, ma anche i sogni occidentali di pace e democrazia in Medio Oriente. Il ripiegamento sulle linee del 1967 lascerebbe allo scoperto l’unica autentica democrazia della regione proprio in un momento di enorme incertezza. In tal modo riconciliazione e vera pace diventerebbero ancora più improbabili. Per questo, ogni eventuale futuro negoziato israelo-palestinese deve essere fondato sulla necessità di confini difendibili (come previsto dalla risoluzione Onu 242). Altrimenti, il sogno di un trionfo della democrazia diventerà più distante che mai.
Ari Harow