lunedì, Novembre 25, 2024
HomeIsraele.netRivolta in Egitto. Crollo in un vecchio cliché

Rivolta in Egitto. Crollo in un vecchio cliché

Dal punto di vista israeliano, uno degli elementi più lampanti della sollevazione in corso in Egitto, Tunisia e altre parti del mondo arabo è quanto tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele.
Per le decine di migliaia di manifestanti che sono scesi per le strade in Egitto nello scorso fine settimana sfidando il coprifuoco pur di invocare l’allontanamento del presidente Hosni Mubarak, Israele e palestinesi semplicemente non erano all’ordine del giorno. Idem nel caso della “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia, all’inizio di gennaio, e delle dimostrazioni che hanno luogo a intermittenza in Giordania, Yemen, Algeria e Marocco: nessuno che gridasse “morte a Israele”, nessun cartello contro “l’assedio di Gaza”, nessuno slogan contro i progetti edilizi ebraici ad Ariel.
A coloro che potrebbero chiedersi che razza di popolo egocentrico è quello che pensa che tutto debba ruotare attorno a lui e di essere sempre al centro di ogni sviluppo della regione, va ricordato cosa sono andati ossessivamente ripetendo per anni tutti quanti, dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, al capo di stato maggiore congiunto Usa Mike Mullen, al rappresentante della politica estera dell’Unione Europea Catherine Ashton, al presidente francese Nicolas Sarkozy: che la questione israelo-palestinese è la prima e principale fonte di agitazione e sedizione in tutto il Medio Oriente. Si rimuova quel motivo di contrasto – così dicevano tutti – Israele se ne vada dalla Cisgiordania e cessi di costruire nuovi appartamenti a Gilo, e sarà tanto più facile portare stabilità nella regione.
Veramente? È proprio così? Proviamo a immaginare per un momento che due anni fa il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) avesse accettato a braccia aperte l’offerta dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert di uno stato palestinese su circa il 95% del territorio con uno scambio di terre a coprire la percentuale mancante, più mezza Gerusalemme e il “Bacino Sacro” dei Luoghi Santi sotto controllo di un consorzio internazionale: forse che allora il tunisino Mohamed Bouazizi non si sarebbe dato fuoco, e non vi sarebbero oggi fiumi di persone che marciano nelle strade d’Egitto contro il regime autocratico di Mubarak?
È chiaro che la marea della rabbia popolare contro i regimi “moderati” del mondo arabo si starebbe comunque rovesciando su quei regimi, indipendentemente dall’esistenza o meno di un accordo di pace israelo-palestinese. Come mai? Perché l’instabilità mediorientale non ha che fare con Israele, ha che a fare proprio con quei regimi: ha a che fare con la disoccupazione araba, con la povertà araba, con la mancanza di speranza araba in un futuro migliore.
Uno degli assiomi ripetuti fino alla nausea nel corso degli anni dagli esperti di tutto il mondo è che la frustrazione araba alimenta l’estremismo, che a sua volta alimenta il terrorismo; e che la fonte di quella frustrazione è la questione palestinese: si tolga di mezzo la questione palestinese e vi sarà molta meno frustrazione, e dunque molto meno terrorismo. Sciocchezze.
È vero, c’è disperazione nel mondo arabo: ma la ragione non sta nella angoscia delle masse arabe per la condizione dei palestinesi; la ragione sta nell’angoscia delle masse arabe per la loro propria vita, la loro propria disoccupazione, la loro propria mancanza di libertà: si ponga mano a tutto questo e si otterrà stabilità; si continui a ignorare tutto questo, e si avranno sommosse.
Ma tutti, a cominciare dagli Stati Uniti sotto Obama e dalla UE, hanno preferito ignorare tutto questo, fissandosi invece sulla costruzione di un nuova casa a Ramat Shlomo o di un nuovo appartamento a Efrat.
Quante volte i leader internazionali hanno enfaticamente deplorato la situazione umanitaria a Gerusalemme est e a Gaza? Quante dichiarazioni sono state fatte per esprimere turbamento e virtuosa indignazione? E, al contrario, quanta attenzione questi stessi leader hanno prestato alla situazione umanitaria in Egitto, in Tunisia, nello Yemen, in Marocco, in Giordania, in Algeria, vale a dire negli stati arabi “moderati”? E quale di queste situazioni umanitarie mette realmente a repentaglio la stabilità del Medio Oriente?
Il Medio Oriente è a un bivio. C’è una fase democratica che si avvicina a grandi passi, ma la si guarda con timore e tremore. Gli eventi in Tunisia e ora in Egitto potrebbero davvero rappresentare le prime rivoluzioni popolari del mondo arabo, ma non sono certo le prime rivoluzioni al mondo. La paura è che ciò che accadde in Francia nel 1789, in Russia nel 1917 e in Iran nel 1979 possa ripetersi in Egitto e nel mondo arabo nel 2011.
In quei paesi, dopo che il vecchio era stato cacciato dal nuovo, ci fu una breve fase in cui emersero le forze democratiche – l’Assemblea Costituente e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino in Francia, Alexander Kerensky in Russia, Shapour Bakhtiar in Iran – solo per essere spazzate via dagli estremisti: Robespierre a Parigi, i bolscevichi a Mosca, l’ayatollah Khomeini a Teheran. Anche in Egitto sono in marcia forze democratiche, ma gli estremisti fanatici sono in agguato nell’ombra, pronti a scattare.
Nulla di tutto ciò, naturalmente, toglie Israele dai guai. Il conflitto coi palestinesi è reale, è grave e bisogna fare enormi sforzi per cercare di gestirlo con giustizia, se non proprio risolverlo. Ma questo conflitto deve anche essere riportato nella sua giusta prospettiva, non deve essere ingigantito ben oltre le sue vere dimensioni.
Quando WikiLeaks lo scorso novembre ha iniziato a pubblicare i dispacci diplomatici americani, il mondo ha potuto vedere coi propri occhi fino a che punto gli stessi leader arabi non considerassero affatto Israele, ma piuttosto l’Iran, come il loro peggiore problema e la principale fonte di instabilità regionale. Ora, per le strade del Cairo, di Tunisi e di Saana il mondo può vedere coi propri occhi cosa considerino come loro peggiore problema le popolazioni arabe: i loro stessi governi. Né la popolazione né i capi considerano Israele e i palestinesi il loro maggiore problema. Se ne accorgerà l’occidente?
Herb Keinon

Più popolari

ultime notizie