lunedì, Novembre 25, 2024
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Israele. La fine dell’era Erekat?

Il capo negoziatore dell’Autorità Palestinese Saeb Erekat ha aspramente criticato, il mese scorso, la tv AL-Jazeera per aver pubblicato documenti “riservati” relativi ai suoi negoziati di pace con Israele, sostenendo che quel reportage aveva messo in pericolo la sua vita. Tre settimane più tardi, quella che sembra essere finita è la sua vita politica.  Sabato scorso Erekat ha rassegnato le dimissioni.
Dalla cascata di documenti in stile WikiLeaks conosciuta come “Palestine Papers” è emersa di lui l’immagine di un uomo che era perfettamente a proprio agio, e persino in scherzosa confidenza, con i suoi interlocutori americani e israeliani, pronto a insistere per ottenere concessioni ma anche a farne a sua volta quando necessario. Nel documento a cui la maggior parte degli osservatori attribuisce la sua fine politica, Erekat fa riferimento ai profughi palestinesi come “materia di trattativa”, contraddicendo la sua posizione pubblica secondo cui i diritti dei profughi sarebbero assolutamente inalienabili.        
La fine dell’era Erekat mette in rilievo un infelice postulato della diplomazia in Medio Oriente: i leader palestinesi non si prenderanno alcun rischio per la pace, non diranno alla loro gente che sono necessari compromessi per porre fine al conflitto e avviare il duro lavoro di edificazione di uno stato.
Al contrario, alimentano la loro popolazione con una dieta costante a base di teorie cospiratorie anti-sioniste, incolpano Israele di tutti i loro mali e imbottiscono il loro pubblico di odio contro i loro alleati, come l’America.
Questa è la narrativa ultranazionalista che va avanti da decenni.   
Ben pochi leader palestinesi hanno il coraggio di contestare questa dottrina popolare. Erekat certamente non l’ha mai fatto. Certo, è un diplomatico esperto. Ha partecipato alla Conferenza di Madrid del 1991 e, due anni dopo, alla firma degli Accordi di Oslo sul prato della Casa Bianca (con Rabin e Arafat). Era a Camp David nel luglio del 2000 e a Taba nel 2001.
Praticamente dopo ogni negoziato, però, usciva con la fronte accigliata a un linguaggio tagliente. Ogni volta attribuiva il mancato raggiungimento di un accordo all’intransigenza israeliana o alla collusione degli americani con Israele, sempre al di là del minimo accettabile per i palestinesi.  
Ma dopo aver letto i Palestinian Papers è lecito domandarsi: quanto di tutto questo era solo una messinscena?
Nel 1995 Erekat proclamava: “Il processo di pace ci sta sfuggendo di mano per colpa della titubanza di Rabin”. Rabin, che quello stesso anno sarebbe stato assassinato, era probabilmente il miglior interlocutore di pace che i palestinesi avessero mai avuto.
L’anno seguente Erekat puntava il dito contro l’inviato Usa Dennis Ross, un professionista dei negoziati di pace, dileggiandolo per il suo ottimismo sulla pace: “Forse il signor Ross vede progressi a modo suo, ma noi non vediamo alcun progresso”. Nel 1997 dava la colpa a Washington per le battute d’arresto diplomatiche, nonostante fosse sotto gli occhi di tutti che i continui attentati terroristici di Hamas rendevano quasi impossibile negoziare. “Il fatto che gli Stati Uniti non si sono mostrati fermi con Netanyahu – diceva – ha fatto perdere credibilità al processo di pace”.         
Quando nel 1999 il presidente Bill Clinton lanciò uno sforzo finale per la pace, Erekat sostenne che gli israeliani cercavano di garantirsi che il processo di pace fosse “distrutto ancor prima di iniziare”.
Durante il vertice di Camp David del 2000 – l’occasione in cui le due parti furono più vicine che mai a firmare la pace – Erekat se ne uscì con una delle sue più madornali dichiarazioni, mortificando l’allora predominante tono di cauto ottimismo: sostenne che Israele non poteva avanzare alcuna rivendicazione storica su Gerusalemme. “Non credo – disse – che ci sia mai stato un Tempio (ebraico) sull’Haram (Monte del Tempio). Non lo credo proprio”. Quando Fatah, la fazione di Erekat, nel settembre 2000 lanciò l’intifada al-Aqsa, egli diede a Israele la colpa “di tutti gli attuali sviluppi”, pur ammettendo apertamente di avere, lui, abbandonato il tavolo delle trattative. Successivamente attaccò gli Stati Uniti per “aver accusato e bastonato i palestinesi” (per il fallimento delle trattative).
Quando il presidente George W. Bush bandì dalla Casa Bianca l’allora leader dell’Autorità Palestinese, Yasser Arafat, per il suo ruolo nel fomentare le violenze, Erekat si presentò come l’uomo chiave della diplomazia. Disse: “Parlare con me, arrivare a un accordo con me, creare uno stato palestinese accanto allo stato di Israele, questo è ciò che garantirà pace e opportunità”. Corse persino voce, dopo la morte di Arafat nel 2004, che Erekat aspirasse a diventare presidente. Ma nel 2005 il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) lo escluse dal suo governo. E solo quando il presidente Barack Obama resuscitò il processo diplomatico, Erekat ricomparve come figura chiave.     
Diplomatici navigati parevano convinti che la presenza di Erekat costituisse un vantaggio netto per il processo di pace. Ma la verità è che Erekat non si è mai assunto la responsabilità di un solo insuccesso palestinese, e non ha mai fatto il minimo sforzo di per preparare la sua gente ai compromessi che avrebbe dovuto fare. La sua uscita di scena sarebbe dovuta avvenire molto prima.
Jonathan Schanzer

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