lunedì, Novembre 25, 2024
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Israele. La stampa di parte allontana la pace …

Il quinto Consiglio Rivoluzionario di Fatah, che si è tenuto a Ramallah alla fine di novembre, non è iniziato sotto i migliori auspici. I partecipanti hanno aperto i lavori celebrando in modo speciale il “martire” Amin al-Hindi, uno dei mandanti del massacro degli undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, deceduto all’inizio di quest’anno.
 Ciò che è seguito è stato uno sfoggio di intransigenza da parte dei 120 membri del “congresso” che dovrebbe rappresentare l’opinione “moderata” palestinese, in quanto opposta all’estremismo di Hamas che invoca apertamente l’uso della violenza per determinare la fine di Israele. Dopo due giorni di convegno, Fatah, che costituisce la spina dorsale della dirigenza dell’Autorità Palestinese, ha proclamato un sonoro “no” al compromesso, smorzando ulteriormente le già tenui speranze in una pace negoziata con Israele.
Il Consiglio di Fatah ha respinto in modo sprezzante il riconoscimento del “cosiddetto stato ebraico” e di uno “stato razzista basato sulla religione”. Ha riaffermato il “diritto al ritorno” che, se attuato, porterebbe alla fine della maggioranza ebraica all’interno della Linea Verde pre-67 permettendo a circa quattro milioni di profughi palestinesi e loro discendenti di insediarsi all’interno di Israele. Scartati allo stesso modo anche eventuali scambi territoriali nel quadro di un accordo di pace.
Stando a quanto deciso dal Consiglio di Fatah, i grandi blocchi di insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania) come Gush Etzion e Ma’aleh Adumim, posti appena al di là della Linea Verde su non più del 5% della Cisgiordania e dove vive l’80% degli ebrei di Cisgiordania, dovrebbero essere sradicati e tutti i loro abitanti espulsi. “Le bande di coloni illegali – proclama Fatah – non possono essere messi sullo stesso piano dei possessori di terre e diritti”.
In pratica sono state respinte tutte le intese fra Israele e Stati Uniti a partire dai “parametri di Clinton” del dicembre 2000, fino alla dichiarazione del presidente George Bush secondo cui qualunque accordo di pace permanente deve rispecchiare la realtà demografica della Cisgiordania. Con un comunicato che suona più come una chiamata alle armi, Fatah ha sostanzialmente enunciato la propria determinazione a insidiare l’esistenza dello stato ebraico in ogni modo possibile a parte rilanciare apertamente la lotta armata.
L’enunciazione da parte del Consiglio di Fatah di una posizione così estremista comporta implicazioni di vasta portata per i negoziati israelo-palestinesi. Ecco perché il servizio del corrispondente per gli affari palestinesi Khaled Abu Toameh sulle decisioni del Consiglio è stato pubblicato sulla prima pagina del Jerusalem Post, domenica scorsa.
Curiosamente, invece, la maggior parte delle testate d’informazione sia locali che internazionali finora hanno accuratamente evitato di riportare i proclami intransigenti di Fatah. Quegli stessi mass-media che solitamente scattano con solerzia e grande spazio per qualunque passo intrapreso da Israele che venga percepito come un ostacolo al processo di pace, trovano del tutto normale passare sotto totale silenzio le decisioni di Fatah, abituati come sono a minimizzare o ignorare del tutto l’istigazione e l’intransigenza da parte palestinese.
Lo scorso 24 novembre, ad esempio, sempre il Jerusalem Post è ha riportato per primo la notizia dello stravagante “saggio” del vice ministro dell’informazione dell’Autorità Palestinese in cui si sosteneva che il Muro Occidentale (del pianto), chiamato dai musulmani Muro Al- Buraq, costituirebbe proprietà esclusiva del Waqf (la Custodia del patrimonio islamico inalienabile) e che “l’occupante sionista pretende falsamente e ingiustamente che tale muro gli appartenga”. Solo alcuni giorni più tardi pochi altri mass-media hanno ripreso la notizia. Molti non l’hanno riportata affatto.
Analogamente, un sondaggio commissionato da Israel Project che mostrava l’atteggiamento altamente ostili da parte dei palestinesi verso Israele è stato a mala pena notato dai mass-media quando è stato pubblicato, il mese scorso. Secondo quel sondaggio, due terzi dei palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella striscia di Gaza concordano con l’affermazione: “Nel corso del tempo i palestinesi devono adoperarsi per riprendersi tutta la terra per lo stato palestinese”. Il 60% degli intervistati dice che “il vero obiettivo deve essere quello di iniziare con due stati, ma poi passare all’esistenza di unico stato palestinese”. Il 56% concorda con l’affermazione: “Dovremo di nuovo fare ricorso alla lotta armata”.
Quando giornalisti e direttori non danno il giusto peso e il giusto spazio alle notizie sull’estremismo e sull’intransigenza palestinesi contribuiscono a perpetuare i pregiudizi contro Israele. Il giornalismo distorto non è solo un tradimento della professione e di coloro che su di essa fanno affidamento: in questo caso costituisce anche un danno concreto al processo di pace, giacché dà una rappresentazione insostenibilmente deformata di una urgenza di compromesso da parte della dirigenza e della popolazione palestinese, condannando così al fallimento le speranze in autentici progressi negoziali.
I palestinesi devono ammettere la legittimità dei diritti degli ebrei ad una sovranità in questo lembo di terra se si vuole che abbraccino la necessità di un compromesso, e in questo modo si incamminino sulla strada verso la pace. Tale processo di riconoscimento richiede un discorso onesto da parte della dirigenza palestinese. Il che a sua volta richiede che la comunità internazionale, in primo luogo, comprenda con esattezza la natura dell’attuale ostilità palestinese verso la nozione stessa di un legittimo stato di Israele; e in secondo luogo che persuada la dirigenza palestinese della necessità di un cambiamento.
Quanto sia importante questa impresa è emerso con perfetta chiarezza nel recente Consiglio Rivoluzionario di Fatah. Peccato che la maggior parte del mondo non ne abbia saputo nulla.

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