È di nuovo Natale, nel luogo dove tutto è cominciato. E quest’anno più che in tutti gli ultimi recenti vi è una visibile e benvenuta presenza di visitatori cristiani nelle strade di Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e Galilea.
Molti vengono dall’America e dall’Europa, ma vi sono gruppi particolarmente numerosi anche dall’India, dalle Filippine e da altri paesi asiatici.
È una scena che si addice al messaggio universale di pace del Natale. In effetti, parte della crescita del turismo cristiano può essere attribuita ai recenti appelli di papa Benedetto XVI al suo gregge di visitare la Terra Santa, per fare da messaggeri di pace in una regione dilaniata dalla guerra dove pochi hanno sofferto più dei cristiani.
Evidentemente i fedeli gli danno ascolto. Si stima che centomila turisti cristiani abbiano visitato Betlemme nel corso del finesettimana, il doppio dell’afflusso dell’anno scorso. In tutto il 2010, sono arrivati 2,4 milioni di cristiani, per metà pellegrini: cifre più alte che in qualunque anno recente, compreso l’anno 2000 del Giubileo. Nel 2009 la cifra totale dei turisti di ogni fede era stata di 2, 7 milioni.
L’effetto più immediato di una forte affluenza di cristiani sul piano della promozione della pace è quello economico. Il ministro israeliano del turismo Stas Meseznikov e il suo omologo dell’Autorità Palestinese Khouloud Daibes, tenendo d’occhio la possibilità di un impulso finanziario, si sono adoperati per i cristiani.
Il turismo rappresenta circa il 15% del Pil palestinese, del quale è prevista una crescita dell’8% alla fine di quest’anno. Incrementare il turismo cristiano rientra nell’approccio pragmatico del primo ministro palestinese Salam Fayyad per la costruzione “sul terreno” di un stato palestinese vitale.
Circa la striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas, le Forze di Difesa israeliane hanno fatto un gesto di pace speciale. Nonostante l’attuale escalation del terrorismo agevolato da Hamas, l’esercito israeliano ha permesso a circa cinquecento cristiani – su una comunità che si dice conti 3.500 anime in tutto, per lo più greco-ortodosse ma anche cattoliche – di uscire dalla striscia di Gaza per recarsi in visita presso famiglie e persone care e partecipare alla messa di Betlemme.
Si tratta del più alto numero di cristiani che ricevono il permesso di uscita da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza con la violenza nel 2007. Due anni fa i cristiani di Gaza avevano celebrato il Natale nel fuoco della guerra: l’incessante serie di lanci di razzi da parte di Hamas sulle comunità ebraiche nel sud di Israele aveva costretto Gerusalemme a lanciare l’operazione “Piombo fuso”.
Nel complesso il benessere dei cristiani in questa parte del mondo resta in pericolo. La costante tendenza verso l’islamizzazione che investe i paesi della regione ha esasperato la già delicata posizione di molte comunità cristiane. In passato, gli arabi cristiani potevano mettere in secondo piano le differenze religiose tra loro e i vicini musulmani facendosi ferventi sostenitori di ideologie laiche come il nasserismo, il pan-arabismo, il comunismo e il nazionalismo. Ma in generale questo non è più vero.
I copti in Egitto, ad esempio, sono stati gradualmente emarginati e subiscono regolarmente discriminazioni violente. In Iraq la situazione è diventata insostenibile. L’antica comunità del paese è stata dimezzata dal milione di persone che contava nel 2003, e continua a declinare stando ai dati dell’Alto Commissario Onu per i Rifugiati. Non è difficile capire il motivo.
Il 31 ottobre scorso un gruppo terrorista legato ad al-Qaeda ha attaccato la cattedrale cattolico-siriaca di Nostra Signora della Salvezza, a Bagdad, durante un messa della domenica sera, causando almeno 58 morti dopo che più di cento persone erano stato prese in ostaggio.
È interessante notare che, mentre in tutta la regione la popolazione originaria cristiana sta progressivamente calando, si assiste a un flusso parallelo di immigranti cristiani, per lo più lavoratori stranieri. Il che si verifica non solo in Israele, ma anche in quegli stati del Golfo che fanno affidamento quasi completamente sulla forza-lavoro straniera. Ad esempio, in Arabia Saudita vi sono più di un milione di cristiani, innanzitutto filippini e indiani, con permessi di lavoro temporanei, ai quali tuttavia non è permesso praticare apertamente la loro religione. Questo, per loro, deve essere un Natale particolarmente triste e sottomesso.
Come e più di ogni altro gruppo in Medio Oriente, i cristiani fungono da barometro della tolleranza e della libertà. La loro condizione mette in evidenza le tensioni, le ostilità e le intolleranze di questa regione. Se la loro situazione migliorasse, ciò indicherebbe un miglioramento generale del clima morale della regione.
Pare appropriato augurarsi, a Natale, che attraverso la loro continua presenza in Medio Oriente e le loro preghiere, i cristiani contribuiscano davvero a portare la pace in questa parte del mondo. Tutta la famiglia del Signore ne avrebbe solo bene.
Editoriale del Jerusalem Post