lunedì, Novembre 25, 2024
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Israele. Quanto vale la parola della superpotenza democratica?

MarlvinaIn Israele si discute se imporre o meno un’ulteriore moratoria di 90 giorni delle attività edilizie ebraiche in Giudea e Samaria (Cisgiordania) in cambio di una serie di promesse da parte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, fra cui quella di opporre il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a un’eventuale risoluzione che mirasse a riconoscere uno stato palestinese sulle linee pre-’67.
La domanda è: tale impegno sarebbe vincolante per la legge americana? Lo sarebbe per Obama? E lo sarebbe per il suo successore? L’appoggio degli Stati Uniti per un siffatto stato palestinese non costituirebbe la violazione di un accordo già esistente?
Alcune settimane fa è stato riportato che Obama, per spingere il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a tornare al tavolo dei negoziati, gli avrebbe offerto di “appoggiare formalmente uno stato palestinese basato sui confini [sic] di Israele di prima della guerra del 1967” (New York Times, 6.10.10).
Lasciando pure da parte la questione del perché mai Abu Mazen abbia bisogno di essere sointo a tornare al tavolo di negoziati destinati a sfociare nella creazione (per la prima volta nella storia) di uno stato palestinese, resta il fatto che tale promessa da parte del presidente Usa violerebbe un accordo fra Stati Uniti e Israele stipulato il 14 aprile 2004 mediante uno scambio di lettere ufficiali fra il presidente americano, che allora era George W. Bush, e il primo ministro israeliano, che allora era Ariel Sharon.
Non basta. L’appoggio, o la non opposizione, da parte americana a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per uno stato palestinese basato sulle linee pre-’67 (che erano linee armistiziali, e non “confini”) sarebbe anche in contraddizione con la politica perseguita dagli Stati Uniti sin dal 1967, da quando cioè il Consiglio di Sicurezza adottò la risoluzione 242. Come è noto, il riferimento di quella risoluzione – proprio su insistenza degli Stati Uniti, a dispetto delle obiezioni dell’Unione Sovietica e degli stati arabi – a un ritiro israeliano non già da “tutti i territori”, e nemmeno “dai territori”, bensì solo da (una parte dei) territori, serviva per l’appunto a garantire che Israele potesse negoziare dei confini “sicuri e riconosciuti” non necessariamente coincidenti con le linee pre-’67.
Diceva dunque la lettera di Sharon del 2004: «Le allego, perché ne possa prendere visione, i principi fondamentali del Piano di Disimpegno […]. Secondo questo piano, lo stato d’Israele intende trasferire installazioni militari, comunità e città israeliane dalla striscia di Gaza, così come altre installazioni militari e un piccolo numero di comunità dalla Samaria» (Cisgiordania settentrionale).
La lettera di Bush diceva: «Accogliamo con favore il piano di disimpegno da voi predisposto […]. Gli Stati Uniti riconoscono i rischi che una tale impresa comporta. Desidero pertanto rassicurarvi su diversi punti. […] Terzo, alla luce delle nuove realtà sul terreno, compresi gli importanti centri abitati israeliani già esistenti, non è realistico aspettarsi che il risultato dei negoziati per lo status definitivo sia un ritorno totale e completo alle linee d’armistizio del 1949. […] È realistico aspettarsi che un accordo per lo status definitivo verrà raggiunto soltanto sulla base di cambiamenti reciprocamente concordati che riflettano tali realtà».
Le lettere portano entrambe la data del 14 aprile 2004. Con un linguaggio attentamente redatto, elencavano una serie di impegni da parte rispettivamente di Israele e Stati Uniti. La lettura delle due lettere non lascia adito a dubbi: esse erano concepite per mettere nero su bianco un accordo fra Stati Uniti e Israele. Con una risoluzione concomitante adottata il 22 giugno 2004, il Congresso americano affermava di “sostenere con forza i principi formulati dal presidente Bush nella sua lettera al primo ministro israeliano Ariel Sharon datata 14 aprile 2004”.
Israele attuò il disimpegno (nell’estate 2005) pagando un alto prezzo umano e materiale: tutte le comunità ebraiche nella striscia di Gaza vennero demolite, migliaia di ebrei vennero rimossi d’autorità dalle cittadine e dai villaggi che avevano costruito e nei quali avevano vissuto e lavorato per molti anni, alcuni per tutta la vita. Tanti di essi sono ancora oggi senza un’abitazione e un lavoro sicuri.
L’offerta di Obama di “appoggiare formalmente uno stato palestinese basato sui confini di Israele di prima della guerra del 1967”, se fatta davvero, è dunque in evidente contraddizione con la “rassicurazione” fatta a Sharon dal suo predecessore Bush che “alla luce delle nuove realtà sul terreno, compresi gli importanti centri abitati israeliani già esistenti, è realistico aspettarsi che un accordo per lo status definitivo verrà raggiunto soltanto sulla base di cambiamenti che riflettano la realtà sul terreno”.
Naturalmente Israele, come qualunque altro paese, non ha alcun mezzo per costringere gli Stati Uniti ad onorare gli impegni presi.
Ma finora in generale gli Stati Uniti lo hanno fatto. Se invece Obama mancherà di onorare gli accordi stipulati dal suo predecessore, non solo macchierà la reputazione internazionale del suo paese, ma comprometterà seriamente la capacità dell’America di negoziare accordi futuri, giacché Israele e gli altri paesi avranno ragione di domandarsi se gli impegni assunti da Washington in cambio di loro concessioni saranno davvero mantenuti.
Malvina Halberstam 
Docente di diritto internazionale alla Benjamin N. Cardozo School of Law, già consulente in diritto internazionale pera il Dipartimento di stato americano

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