I disastri della guerra in Afghanistan sono stati messi sotto gli occhi di tutti. Decine di migliaia di documenti, in gran parte rapporti di militari di bassa forza su specifici incidenti che hanno avuto luogo fra il gennaio 2004 e il dicembre 2009, descrivono in dettaglio la realtà quotidiana con cui fanno i conti le forze della coalizione in Afghanistan.
C’è la doppiezza del Pakistan, sospettato di fornire supporto vitale alle forze dei talebani mentre allo stesso tempo riceve aiuti dagli Stati Uniti e da altri paesi della coalizione. C’è la diffusa corruzione dei funzionari e della polizia afghani, che impedisce l’arrivo a destinazione dei fondi stanziati per orfani, ospedali e altri bisogni umanitari. Ma ciò che ha ricevuto più attenzione sui mass-media israeliani – per via dell’attinenza con la battaglia di Israele contro Hamas e Hezbollah – sono stati i copiosi rapporti sulle vittime civili causate dalle forze della coalizione.
Julian Assange, il fondatore di Wikileaks che nei giorni scorsi ha pubblicato i 91.000 documenti segreti e sensibili delle forze armate Usa sulla guerra in Afghanistan, nella conferenza stampa di domenica scorsa ha dichiarato: “Spetta ora a una corte decidere se qualcosa, in ultima analisi, costituisca un crimine; detto questo, a prima vista sembra proprio che in questo materiale via siano le prove di crimini di guerra”.
Assange non sembra per nulla impensierito dall’idea che anche la sua decisione di diffondere documenti segreti, in grado di mettere in pericolo le forze della coalizione in Afghanistan, possa costituire un crimine [in Israele si parla talvolta di quel genere di “giornalisti” che nel 1942-44 non avrebbero esitato a pubblicare l’indirizzo del nascondiglio segreto di Anna Frank, in nome di un concetto astratto della libertà d’informazione].
Se spettasse al giudice Richard Goldstone esaminare i casi di vittime civili riportati nei documenti appena pubblicati, molto probabilmente questi si troverebbe d’accordo con Julian Assange. A giudicare dal verdetto emesso da Goldstone nel suo rapporto all’Onu sull’operazione anti-Hamas condotta da Israele nella striscia di Gaza nel gennaio 2009, egli ignorerebbe completamente l’uso che fanno i talebani dei civili afghani come scudi umani, e condannerebbe le forze americane, inglesi e degli altri paesi per crimini di guerra e danni collaterali “sproporzionati”.
Di fatto, gli standard etici di Goldstone escludono la possibilità di muovere guerra in qualunque modo contro nemici del tipo dei talebani. “Quando si mandano un sacco di soldati in un posto come l’Afghanistan – dice Asa Kasher, rinomato esperto internazionale di etica militare, autore del codice etico delle Forze di Difesa israeliane – si sa che vi saranno inevitabilmente delle perdite civili”.
In altre parole, è impossibile lanciare una guerra contro i talebani in Afghanistan o, se è per questo, contro Hamas a Gaza e Hezbollah nel sud del Libano, senza commettere ciò che Goldstone e altri attivisti dei diritti umani considererebbero “crimini di guerra”. Secondo Kasher, le regole di ingaggio israeliane sono perfettamente etiche ed essenzialmente uguali a quelle di tutti gli altri paesi occidentali, compresi Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia ed altri paesi della coalizione che combatte in Afghanistan.
Anche la professionalità dei combattenti, un altro fattore importante per il mantenimento di un elevato standard morale, è equiparabile. Pertanto, se sono state giudicate illegali le azioni di Israele a Gaza, allora dovrebbero esserlo anche quelle della coalizione in Afghanistan.
Le indicazioni che scaturiscono dalla concezione di Goldstone sono di vasta portata e non solo riguardo a Israele, come mettono in evidenza i documenti appena pubblicati. Se dovessero essere adottati i suoi parametri, ciò significherebbe che Israele, nell’impossibilità di combattere Hamas senza causare vittime civili, dovrebbe rinunciare del tutto al difendersi. Invece, dovrebbe completamente affidarsi alla diplomazia, con un’organizzazione che rifiuta persino di riconoscere il diritto di Israele ad esistere.
Evidentemente non è considerato “immorale” non muovere un dito per proteggere gli abitanti di Sderot e delle altre comunità israeliane nei paraggi di Gaza dai continui lanci di razzi Qassam palestinesi.
Nel frattempo Stati Uniti, Gran Bretagna e gli altri paesi della coalizione dovrebbero abbandonare la guerra contro i talebani e Al-Qaida scatenata dall’attacco dell’11 settembre, e l’estremismo jihadista avrebbe mano libera nel regolare sanguinosamente i conti con tutti coloro che hanno cooperato con le forze della coalizione nella speranza di dare vita a una società più libera: donne che hanno smesso il burqa, politici che hanno spinto per la crescita di democrazia e libertà, educatori che hanno sperato di integrare il Corano con matematica, scienze, letteratura.
In realtà, il mantenimento di elevati standard morali non esige affatto di sottomettersi ai terroristi e alla violenza degli estremisti religiosi. In guerra accadono cose terribili, compresa a volte la morte inevitabile di civili innocenti (o di propri soldati sotto “fuoco amico”). Ma astenersi dal muovere guerra contro il male, e dal difendere il bene, costituisce un tradimento del dovere umano di battersi per la libertà. E questo sì che sarebbe davvero immorale.
Nella foto in alto: postazione lanciarazzi palestinese (indicata dal mirino) posizionata fra due edifici scolastici, nella striscia di Gaza (gennaio 2009) (
Jerusalem Post, 28.7.10